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Puntuali, come ogni anno, i giornali si riempiono di riflessioni, più o meno serie, sul cattivo gusto imperante sotto il solleone. Il Corriere della sera propone addirittura una pagina intera di scatti da quella che definisce “l’estate più cafona degli ultimi anni”, a cominciare dalla foto di una coppia di turisti che entra in costume da bagno in una chiesa del salernitano.

Solo di qualche giorno fa è invece la polemica che ha investito il sindaco di Viareggio, a cui un ristoratore del posto ha vietato l’ingresso nel suo locale a causa di un abbigliamento poco consono: un paio di eleganti bermuda, costati, ha tenuto a precisare il primo cittadino, ben 250 euro! Non si contano poi i provvedimenti di sindaci e amministrazioni comunali di città balneari o turistiche sparse per la penisola che vietano ogni anno, spesso senza successo, abbigliamenti poco consoni nel centro cittadino.

Cosa dedurre da tutto questo? Si tratta semplicemente di lievi scaramucce legate al periodo vacanziero, o denotano qualcosa di più importante ed esigono risposte più meditate di quelle scherzose che il clima di ferie giustamente ci fa dare di primo acchito? Solo polemiche e gossip “da spiaggia”? La prima e più banale riflessione è quella che concerne i mutamenti collettivi e sociali del gusto: è evidente che ciò che un tempo era giudicato “volgare” non necessariamente lo è oggi, e viceversa. E poi, va aggiunto, la stessa “volgarità” si è per così dire spiritualizzata, concernendo sempre più a ragione lo stile e i comportamenti delle persone piuttosto che il loro abbigliamento (giusto il proverbiale detto che “l’abito non fa il monaco”). Ma qui si parla appunto di gusti collettivi, cioè che pertengono a quel soggetto protagonista, nel bene e più spesso nel male, dell’epoca moderna o democratica che è la “massa”. La quale, per sua natura, tende a uniformare e a conformare le idee, le parole, gli stili e anche il gusto.

Contro tale conformismo, è vano opporsi, anche perché lo stesso anticonformismo, in epoca democratica, è sempre sul crinale di convertirsi in un nuovo conformismo. Ciò che però, in un’ottica liberale, deve starci a cuore è la libera espressione individuale, cioè la possibilità che ognuno dovrebbe poter avere, anche chi non vuole attualizzarla, di seguire le sue idee e i suoi gusti indipendentemente dal giudizio degli altri (di cui può altamente infischiarsene) o dalle direttive di un potere centrale o dello Stato. Nessuno può impedirmi di seguire il mio gusto, il quale, detto altrimenti, non può essermi imposto per legge. Se io inseguo, e qui parlo davvero in prima persona, un mio fantasma estetico fatto di sobrietà (un tempo si sarebbe detta “borghese”), stile, signorilità, devo poter avere il diritto di seguirlo, così come diritto a seguire il trash, per gioco o con convinzione, devono avere tutti gli altri. Io li giudicherò e non mi accompagnerò a loro, ma non pretenderò che mi seguano né che viceversa siano loro a seguire me. Certo, capisco che il mio gusto, in epoca democratica, è minoritario, ma più che lavorare con la persuasione per farlo essere un po’ meno minoritario non posso fare. Avere il diritto di seguire il proprio gusto di minoranza significa però, come dicevo, avere la possibilità di poterlo esprimere. Il che significa che se un ristoratore come quello di Viareggio mette delle regole all’ingresso del suo locale, che è uno spazio comunque privato e non pubblico, deve poterlo fare. Significa che egli si rivolge a persone come me, ha fatto una sua precisa scelta di mercato (che probabilmente si farà anche pagare cara, perché egli vende non solo i suoi cibi ma anche valori simbolici e immateriali).

Ha il diritto di farlo e nessuno può e deve impedirglielo, come sembrerebbe volere invece fare Marco Belpoliti che su La Repubblica stigmatizza il comportamento del ristoratore vittima a suo dire di un tabù irrazionale e “superato”. Come se la vita fosse fatta solo di “razionalità” e non anche di valori sentimentali e simbolici e come se il gusto seguisse le leggi del “progresso”. D’altronde, se proprio si vuole andare al ristorante in bermuda, non ci sono forse diecimila altri posti pronti ad ospitarci? Fuori luogo mi è poi sembrato anche l’intervento, sempre sul Corriere, di Beppe Severgnini. Il noto giornalista ha infatti messo alla berlina il sindaco che, pur di sottolineare il fatto di non essere andato al ristorante vestito “da straccione”, ha affermato di portare addosso vestiti dal valore di mille euro (duemila con l’orologio). Ora, se è indubbio che è inopportuno, soprattutto politicamente, giustificarsi in questo modo, altrettanto evidente è che il sindaco con la sua goffa autodifesa voleva alludere al fatto, da Severgnini non colto, che c’è una dimensione del lusso che coincide con quello che gli inglesi chiamano lifestyle, che è insieme un benessere interiore e un saper vivere. Molto spesso, ripeto, si può essere eleganti a basso costo e al contrario cafoni (arricchiti) con abiti ostentati e griffati, ma fatto sta che il lusso in sé non può essere moralisticamente considerato come una dimensione diabolica e immorale.

È su questo crinale difficile e complicato, come tutto ciò che concerne il gusto, su questa sottile linea fra bello e “volgare”, che si è giocata la partita, apparentemente futile, fra un ristoratore che non vuole i bermuda nel suo locale e un sindaco che ribatte “bermuda si, ma di classe”. Che la “guerra del bermuda” sia stata poi banalizzata è comprensibile, agli effetti mediatici, ma, per chi pensa, non può essere considerata solo una lieve polemica di “mezza estate”.

 

Lingotto, 5 stelle, molestie

Perché la guerra dei bermuda non è solo una polemica di mezza estate

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