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Marcel Ghanem, giornalista libanese tra i più noti, conduttore del talk show televisivo della Lebanese Broadcasting Corporation intitolato “Parola al popolo”, ieri non si è presentato in tribunale dove avrebbe dovuto essere interrogato nell’ambito del processo per “calunnia” avviato dopo un’incandescente puntata del suo programma. Al suo posto c’era il suo avvocato, Butros Harb, autorevolissimo ex ministro libanese e nome di spicco del foro beirutino. Come previsto dai codici libanesi, Ghanem, chiamato come testimone, non era tenuto ad essere presente di persona visto che il suo legale intendeva presentare delle eccezioni per vizi di forma che a suo avviso consentivano di chiedere la cancellazione della deposizione.

La convocazione del teste, ha obiettato la difesa, è stata effettuata dal giudice in assenza di un testo legale di riferimento. Ma, subito dopo che l’avvocato Harb ha illustrato la sua istanza, il giudice libanese l’ha respinta, convocando una nuova udienza per il 4 gennaio e intimato al teste di presentarsi, pena l’accusa di resistenza alla legge. Il fatto viene definito gravissimo dall’avvocato Harb, che afferma di non conoscere un solo precedente che legittimi una simile decisione del magistrato. Ma per noi, osservatori stranieri e poco addentro alle procedure giudiziali libanesi, quel che risulta di tutto rilievo è che un giornalista venga comunque coinvolto in un procedimento giudiziario per quel che è stato detto da altri durante il suo programma. E allora ricordiamo cosa è successo.

Ghanem durante il suo programma ha invitato e intervistato un autorevole commentatore saudita, nel pieno della polemica tra l’Arabia Saudita e il Libano sulle dimissioni (poi rientrate) del premier Hariri. Come è noto Hariri rimproverava ad Hezbollah, il partito confessionale sciita che ha un potentissimo braccio armato e che fa parte del governo, di non rispettare la politica sancita dal governo libanese di dissociazione da tutti i conflitti armati in corso nella regione. Molti soggetti internazionali definiscono terrorista Hezbollah, l’Unione Europea classifica come terrorista il braccio militare di Hezbollah. La questione ora riguarderebbe direttamente l’Arabia Saudita, colpita da razzi sparati dai ribelli Houti che secondo Riad godrebbero dell’assistenza militare di Hezbollah, che non nega certo la sua presenza militare nello Yemen. La questione del terrorismo di Hezbollah è stata evocata nel programma e l’ospite saudita ha argomentato che chi difende il diritto di Hezbollah ad avere armi, come ha fatto il presidente libanese Aoun e il presidente del Parlamento Berri, è complice del terrorismo di Hezbollah. Dichiarazioni non certo leggere né concilianti, di cui però, per quanto possa sapere chi non ha visto il programma ma solo letto quanto è stato scritto al riguardo, ricadono nella responsabilità di chi le ha formulate e non del conduttore del talk-show. Che peraltro ha fatto intervenire un ex ministro libanese presente in studio, mentre l’ospite saudita parlava da uno studio londinese, per sostenere la tesi opposta.

“Cosa ho fatto di male? Quello in atto è un chiaro tentativo intimidatorio”, ha dichiarato questa mattina Ghanem, poco prima che una conferenza stampa del suo avvocato diventasse una sorta di manifestazione auto-convocata in difesa della libertà di stampa e di espressione, alla quale sono intervenuti molti giornalisti e deputati. Il caso-Ghanem, e la pretesa di trascinarlo comunque in un’aula giudiziaria libanese, preoccupa molto per la tenuta del sistema libanese, l’unico che garantisce una indiscutibile e ampia libertà di parola e di espressione nel mondo arabo.

Il recente film libanese, “l’insulto”, che proprio da un insulto a sfondo “confessionale” fa derivare l’inizio di un conflitto giudiziario tra due privati cittadini che rischia di riaccende le polveri di una guerra civile mai superata del tutto, ci può guidare nel capire il peso di certe narrative. Nel Libano di oggi la narrativa per cui le armi di Hezbollah servirebbero a difendere il Libano dall’aggressione di “potenze straniere”, è molto diffusa, mentre la narrativa per cui quelle armi servono a compiere azioni terroristiche è molto meno diffusa, proprio come le due narrative che si celano dietro il caso posto al centro del film “l’insulto”. Ma al di là delle azioni terroristiche compiute da Hezbollah in Argentina e in Europa, come classificano i libanesi l’opera compiuta dai miliziani di Hezbollah in Siria e in Iraq, oltre che in Yemen? Le persone trucidate in Siria sono rimaste vittime di una difesa preventiva dei luoghi santi sciiti in Siria ormai prossimi all’attacco o di una vera e propria carneficina di sunniti?

Anche questa volta purtroppo la realtà supera la fantasia, perché il vero guaio di questo caso giudiziario non è l’esposizione di una situazione alla quale sottendono due narrative così diverse, ma perché coinvolge un giornalista in carne e ossa. È questo, al di là delle narrative, che fa temere per la tenuta di un sistema di libertà di espressione e di informazione che ha fatto del Libano un rifugio sicuro per tanti dissidenti arabi. Che rischierebbero ora di perdere anche questa oasi di libertà.

 

A processo un giornalista. Libano non più oasi di libertà?

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