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Nel fine settimana tra il 6 e l’8 agosto 1982 il Veneto giocò un ruolo rilevante nella nascita del Nuovo Banco Ambrosiano. La Banca Cattolica partecipò infatti alla rifondazione dell’istituto, agevolando il difficile compito che il ministro del Tesoro Nino Andreatta aveva affidato al 49enne Giovanni Bazoli. Un contributo che forse non sarebbe stato così decisivo senza i risultati che l’istituto vicentino (finito nelle mani di Roberto Calvi negli anni ‘70) aveva registrato fino ad allora grazie all’ad Vahan Pasargiklian. Non a caso negli anni successivi Bazoli si guardò bene dal vendere la Banca Cattolica, anche perché la sua rete commerciale era del tutto complementare a quella dell’Ambrosiano, con una presenza molto forte nel Triveneto. «Per fortuna siamo riusciti a salvarla e ora se ne vedono i frutti», si confidò il professore in un’intervista a Milano Finanza del 1987. A fine decennio comunque la Banca Cattolica sarebbe stata fusa nell’istituto milanese, dando vita al Banco Ambrosiano Veneto (o Ambroveneto) che non a caso mantenne sede legale a Vicenza fino alla fusione con la Cariplo nel 1998.

Quasi 35 anni dopo i ruoli sono invertiti e oggi è il gruppo Intesa Sanpaolo a dover correre in soccorso del Veneto bancario per scongiurare un doppio bail-in. In liquidazione questa volta finiranno la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, due istituti che nell’ultimo ventennio hanno supplito alla scomparsa della Banca Cattolica per garantire alla regione un’identità economica e finanziaria. Dopo la tribolata gestione del fondo Atlante e il fallimentare tentativo di fusione, alle due banche non resta altra strada che confluire nel gruppo Intesa per salvare correntisti e obbligazionisti senior. Nessuno se ne rammaricherà, visto che le sirene del campanilismo sono un ricordo lontano in una regione che ha visto andare in fumo risparmi per centinaia di milioni. Tant’è che nel trevigiano molti ricordano con una punta di sarcasmo la levata di scudi con cui nella primavera del 1997 la Popolare di Asolo e Montebelluna (poi Veneto Banca) accolse la ricca offerta del San Paolo di Torino. Altri tempi, altre offerte. Questa volta gli azionisti di Intesa non vogliono spendere più di un euro per rilevare i due istituti. Ecco perché l’offerta, arrivata mercoledì 21 sul tavolo dell’advisor Rothschild, pone paletti molto precisi: dal perimetro dell’acquisizione sono esclusi non solo tutti i crediti deteriorati (npl, inadempienze probabili ed esposizioni scadute), ma anche i crediti in bonis ad alto rischio, i bond subordinati, i rapporti giuridici considerati non funzionali all’acquisizione e gli oneri di ristrutturazione.

Questo perché la banca guidata da Carlo Messina (in foto) intende garantire la totale neutralità dell’operazione sul Cet1 (ora al 12,8%) e sulla politica dei dividendi (obiettivo 2017 a 20 centesimi) e vuole evitare a ogni costo aumenti di capitale. I circa 20 miliardi di euro di asset scartati confluiranno in una bad bank finanziata con risorse pubbliche per 3,5-4 miliardi. La palla è tornata così nelle mani del governo, che sabato 24 dovrebbe emanare un decreto legge per definire l’intervento. Già venerdì 23 i consigli di amministrazione delle due banche e gli amministratori delegati Fabrizio Viola e Cristiano Carrus hanno peraltro espletato gli ultimi compiti prima della messa in liquidazione. Mentre nella tarda serata di venerdì 23 la Bce ha attestato che Bpvi e Veneto Banca sono failing o likely-to-fail. «Le due banche non sono state in grado di offrire soluzioni credibili per il futuro», spiega un comunicato. «La Bce ha considerato entrambe le banche in dissesto o a rischio di dissesto e ne ha dato debita comunicazione al Comitato di risoluzione unico il quale è giunto alla conclusione che le condizioni per l’avvio di un’azione di risoluzione non erano soddisfatte. Le banche saranno quindi liquidate in base alle procedure di insolvenza italiane».

C’è insomma fiducia che il salvataggio possa creare valore per gli azionisti di Intesa, anche se l’integrazione non sarà impresa semplice. In molte cittadine del Nord Est le filiali di Bpvi, Veneto Banca e Intesa Sanpaolo convivono gomito a gomito e l’Antitrust italiano potrebbe imporre interventi significativi per assottigliare la nuova rete commerciale. Oltretutto in termini numerici gli sportelli delle due ex popolari sono circa un quarto di quelli di Intesa e uno snellimento è inevitabile. Sul piano occupazionale l’integrazione potrebbe determinare circa 4.000 esuberi e non è escluso che l’Europa imponga tagli più consistenti. Il costo delle uscite (circa 1,2 miliardi) dovrebbe comunque essere sostenuto dallo Stato con l’iniezione di nuove risorse nel fondo esuberi della categoria dopo lo stanziamento da 650 milioni effettuato dall’ultima Legge di Bilancio.

C’è poi il tema delle sovrapposizioni dei fidi. Il problema del pluriaffidamento è abbastanza frequente tra le pmi venete, che hanno spesso conti in Bpvi, Veneto Banca e Intesa. La revisione selettiva del portafoglio crediti sarà una conseguenza inevitabile dell’integrazione e potrebbe avvenire nel primo triennio di attività. La percentuale di impieghi che un’impresa potrebbe ottenere dal nuovo gruppo sul totale delle passività rischia di essere inferiore alla somma delle percentuali accordate prima del salvataggio. Si tratta di problemi che i vertici della Ca’ de Sass hanno presenti e che potrebbero essere superare senza grossi problemi. Anche perché sull’altro piatto della bilancia c’è un progetto industriale in grado di lasciarsi alle spalle la crisi finanziaria e reputazionale e di replicare lo schema attuato 35 anni fa con il Banco Ambrosiano.

(Estratto di un articolo pubblicato su MF/Milano Finanza)

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