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La ripresa si consolida in tutto il mondo. Si esulta, con sussiego, celando dietro un tulle rosa la ragionevole certezza che la terapia monetaria usata dalle banche centrali è stata una cura solo sintomatica. La crescita in atto si fonda su una riduzione temporanea dei costi del debito: appena risaliranno, si ripresenteranno, e di molto aggravati, i problemi che hanno determinato la crisi del 2008.

Anche l’Italia sembra fuori dal guado: le istituzioni che forniscono previsioni economiche, senza eccezioni, hanno abbandonato i dubbi e le espressioni ancipiti, in cui i rischi per la crescita sono continuamente appaiati alle notazioni positive. Una delle principali agenzie di rating, notoriamente arcigna, ha addirittura stimato un tasso di crescita superiore a quello previsto dal governo: +1,4% sia per quest’anno che per il 2018.

Spira aria di normalizzazione: siamo fuori della buriana. Non solo abbiamo lasciato alle spalle una crisi economica e finanziaria lunga, profonda ed estesa come mai nessun’altra in tempo di pace, ma è stata superata anche la turbolenza socio-politica, assai più pericolosa, che ne è derivata. La minaccia di un ritorno al protezionismo e del diffondersi dei populismi è svanita dopo l’esito delle elezioni in Austria ed in Francia. Si è interrotto lo scarrocciamento segnato dalla Brexit e dalla elezione di Donald Trump, sintomi di una pericolosa corrente che allontanava irrimediabilmente il mondo dalla rotta della globalizzazione.

In verità, ad essere clamorosamente smentite sono state le fosche previsioni sui tracolli che sarebbe seguiti alla Brexit prima, ed alla elezione di Trump poi. L’economia americana veleggia come mai prima, al ritmo del 3%, anche se non è tutt’oro ciò che riluce: la spesa per i consumi è aumentata del 3,3%, a fronte di un aumento dei salari reali di appena lo 0,3%. La crescita a debito è un classico americano, ancora una volta. Sul versante dell’occupazione, poi, su 237 mila posti di lavoro in più, solo 16 mila sono nel comparto industriale. Anche in Italia, i profeti di sventura, quelli che pronosticavano un crollo dell’economia nel caso in cui fosse stato bocciato il referendum costituzionale tenutosi lo scorso dicembre, si sbracciano sottolineando risultati più che positivi.

C’era della retorica e della faziosità prima, quando si tambureggiava sulla necessità di severità e rigore, senza se e senza ma, e ce n’è probabilmente ancor più oggi. Ora è necesario rasserenare i cittadini e rassicurare i mercati: l’ottimismo va diffuso a piene mani se si vuol tornare a mietere consistenti rendite sul debito, dopo la lunghissima repressione finanziaria decisa dalle Banche centrali. Queste ultime, a loro volta, sono consapevoli del fatto che la loro missione straordinaria è giunta al termine.

La normalizzazione monetaria sarà dunque la sfida più grande per le Banche centrali, travalicando temporalmente e strategicamente la scadenza degli incarichi di Janet Yellen alla guida della Fed e di Mario Draghi alla Bce. Per il momento, c’è da fare un bilancio del loro operato. La Fed è più che mai titubante sul rialzo dei tassi e sul rastrellamento della liquidità, mentre la Bce si è limitata ad annunciare che del Qe si discuterà a settembre, assicurando però che i tassi rimarranno bassi per un periodo ancora molto lungo. Fed e Bce si dicono orgogliose del lavoro fatto: non c’è da far altro che proseguire sulla strada intrapresa con le riforme strutturali che migliorano la competitività, senza cedere né alla tentazione di allentare i freni che in America sono stati posti al sistema finanziario, né alle lusinghe del protezionismo.

Siamo, invece, ancora in mezzo al guado, con una perdurante distonia tra politiche fiscali restrittive e politiche monetarie espansive. E Banche centrali hanno sostenuto l’economia con tassi tendenti a zero ed immissioni continue di liquidità: Stati, imprese e famiglie pagano sui loro debiti oneri mai così esigui. Questi costi ridotti sono la vera chiave di volta della crescita odierna: consentono ai governi di evitare che le politiche volte al pareggio strutturale siano socialmente e politicamente inaccettabili, oltre che economicamente insostenibili; fanno sì che le imprese distribuiscano utili consistenti; aumentano le risorse disponibili per i consumi delle famiglie. Per i debitori è un vantaggio, ma contingente, legato alla durata delle politiche monetarie accomodanti. Queste ultime hanno sicuramente dato influito positivamente anche sui corsi azionari, che in America hanno giù ampiamente recuperato i picchi pre-crisi, almeno per gli indici che considerano le principali società quotate.

Lo smacco più cocente, soprattutto per la Bce, è rappresentato dal mancato raggiungimento dell’obiettivo della crescita dei prezzi vicina, ma non superiore, al 2% annuo. Lo stock del debito reale, pertanto, non si riduce come auspicato. Anzi, finora è aumentato: questo rimane, soprattutto per l’Italia, il nodo irrisolto. Mentre la crescita reale aumenta di qualche decimo di punto percentuale in più rispetto alle previsioni, il tasso di inflazione rimane lontanissimo dagli obiettivi, pregiudicando l’obiettivo cruciale di ridurre il rapporto peso/pil. Per quanto possa sembrare paradossale, sono state le riforme strutturali imposte ai governi come risolutive, ed ampiamente condivise dalle stessa Bce, a rendere impossibile l’obiettivo di portare l’inflazione al 2%: la deflazione salariale volta a migliorare la competitività internazionale, la flessibilità del mercato del lavoro in uscita, e lo stretto legame tra andamento delle retribuzioni e produttività aziendale superando il sistema dei contratti nazionali di categoria, hanno eliminato ogni esubero di domanda interna che prima trovava sfogo nell’aumento dei prezzi. Neppure la svalutazione dell’euro sul dollaro, che era arrivata al 20% facendo ipotizzare un ritorno alla parità, ha fatto imbarcare inflazione, per via della cedevolezza dei prezzi energetici e delle materie prime, che registrano un eccesso di offerta. Le politiche monetarie accomodanti sono solo contingentemente positive, per il sollievo dato ai debitori ed alle Borse, ma sul versante della inflazione, e quindi della sostenibilità del debito, il bilancio delle politiche europee, monetarie e normative, è negativo. Negli Usa, invece, si ripropone il ricorso massiccio dei privati al debito. Un aumento dei tassi, in queste condizioni, metterebbe tutti con le spalle al muro: Stati, famiglie, imprese e Borse.

Per dirla tutta: la crescita attuale dipende dal risparmio sugli oneri per interessi, e non dalla dinamica degli investimenti o dai consumi trainati dal maggior reddito disponibile dopo le tasse. È dal 1970 che negli Usa si assiste ad una diminuzione costante della quota di stipendi e salari sul totale del reddito nazionale, passata dal 58% al 53%, a favore di rendite e dividendi. Da allora, il risparmio delle famiglie si è ridotto e la domanda è stata alimentata dal debito. Con la crisi del 2008, il recupero della competitività tra le imprese e tra gli Stati è stata basata sui bassi salari: se i profitti aumentano, stagnano invece le entrate fiscali e quelle contributive, mettendo continuamente a rischio gli equilibri di lungo periodo. L’inflazione va a zero, rendendo insostenibile il debito che sopperisce alla carenza di redditi.

Non si tratta quindi solo di normalizzare la politica monetaria, mediando tra gli interessi dei creditori e le difficoltà dei debitori. Occorre eliminare gli squilibri commerciali strutturali internazionali e trovare un equilibrio più generale tra redditi da lavoro, profitti e rendite: la crisi nasce in America dai mutui sub-prime ed in Europa dai debiti pubblici e bancari verso l’estero di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia.

Una crescita finanziata temporaneamente dalla repressione finanziaria delle Banche centrali, ma alimentata strutturalmente dal debito, non regge: lì eravamo, e lì siamo.

Che cosa succederà alle economie quando le banche centrali chiuderanno i rubinetti?

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