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La prossima settimana si riapre a Bonn il negoziato sulla attuazione dell’accordo di Parigi contro i cambiamenti climatici. C’è molta incertezza per la posizione degli Stati Uniti, visto che nelle scorse settimane il G7 Energia ha dovuto prendere atto delle critiche americane verso l’accordo e dell’impossibilità quindi di raggiungere una posizione comune.

Non è una sorpresa, avendo il Senato americano già espresso nel 2015 la sua contrarietà per la mancanza di valutazioni sugli impatti economici e geopolitici dell’accordo sull’economia statunitense, in particolare per quanto riguarda la sicurezza energetica e la competitività con le economie emergenti (Cina ed India). E tutti sanno che se Obama avesse sottoposto l’accordo di Parigi al Senato, gli Stati Uniti non lo avrebbero ratificato.

Più o meno con le stesse motivazioni gli Stati Uniti si ritirarono nel 2000 dal Protocollo di Kyoto, dopo che nel 1999 – durante la presidenza Clinton – il Senato respinse all’unanimità la ratifica del Protocollo. Le polemiche e le battute contro le posizioni di Trump sui cambiamenti climatici non colgono evidentemente la natura del confronto interno che è in atto negli Stati Uniti.

Infatti, sebbene sia vero che consiglieri – oggi “occulti” – del presidente Trump, come Stephen Bannon, continuino a considerare il cambiamento climatico una trappola politica organizzata dalla Cina, le grandi compagnie energetiche americane si sono recentemente espresse a favore di una partecipazione statunitense ai negoziati con proposte concrete per la riduzione progressiva del peso dei combustibili fossili, senza danni per l’economia americana e senza effetti distorsivi a favore delle economie emergenti (Cina e India in primis). Una posizione condivisa anche dal segretario di Stato Rex Tillerson, capo della Exxon Mobil fino a gennaio scorso.

In sostanza la domanda, lasciata senza risposta dall’accordo di Parigi, è molto semplice: come si fa ad evitare che l’aumento dei consumi energetici nelle economie emergenti e in via di sviluppo non comporti l’impoverimento delle economie più sviluppate? Una delle proposte dell’industria energetica americana è quella della introduzione di una “carbon tax”, che avrebbe da un lato un effetto diretto e non distorsivo sulla selezione delle fonti e sulla efficienza negli usi finali dell’energia, e dall’altro potrebbe stimolare gli investimenti nelle ‘giuste’ tecnologie a basso contenuto di carbonio.

L’altra faccia della discussione negli Stati Uniti è rappresentata dalle mancate risposte a tre questioni affrontate in modo marginale dall’accordo di Parigi. In primo luogo la forte crescita dell’India, che sarà sostenuta nei prossimi 25 anni dal quadruplicamento dell’impiego del carbone nonostante il ruolo crescente di energie rinnovabili e nucleare; in secondo luogo, i programmi in corso in molti paesi africani e asiatici per il pieno sfruttamento dei nuovi giacimenti di olio e gas; in ultima analisi, le strategie di medio-lungo periodo delle economie del petrolio e del gas, quali l’Arabia Saudita, la Russia ed il Qatar.

Va infine considerata la posizione cinese, ben espressa dal presidente Xi al World Economic Forum di Davos: la Cina, con un PIL pro-capite inferiore di 5 volte a quello americano, ha investito nel 2015 il doppio degli Stati Uniti in tecnologie pulite (110 contro 56 miliardi di euro) ed ha raggiunto un tasso di decarbonizzazione del 4%, il doppio dei paesi G7. La Cina sta anche finanziando il primo progetto concreto per la decarbonizzazione dell’economia globale con l’iniziativa Global Energy Interconnection. Può tuttavia la Cina essere allo stesso tempo la locomotiva dell’economia mondiale e quella che paga il prezzo pro-capite più alto per la decarbonizzazione?

È evidente che il puzzle è complicato. La contestazione o la difesa a prescindere dell’accordo di Parigi avranno lo stesso esito del confronto all’inizio degli anni 2000 tra Europa e Stati Uniti sul Protocollo di Kyoto: il rallentamento, fino al sostanziale blocco, delle politiche e misure per la riduzione delle emissioni.

È invece necessario ripartire dai temi dimenticati.

La presidenza italiana del G7 ha l’occasione di proporre agli Stati Uniti e agli altri partner una piattaforma di dialogo, con la consapevolezza che il velo dei buoni propositi dichiarati a Parigi copre problematiche economiche e geopolitiche non risolte dalle quali dipende il futuro del clima. La piattaforma dovrebbe essere aperta almeno a Russia, Cina, India, OPEC, e istituzioni finanziarie internazionali inclusa l’Asian Infrastructure Investment Bank.

I temi in agenda sono difficili, ma è necessario affrontarli se la riduzione delle emissioni di carbonio è la strada obbligata per proteggere il clima del pianeta. Si va dall’introduzione di un prezzo condiviso del carbonio per evitare distorsioni e assicurare un’equa distribuzione tra tutti i paesi dei benefici della decarbonizzazione all’introduzione di regole e meccanismi finanziari per orientare e premiare gli investimenti in tecnologie a basso contenuto di carbonio (tenendo presente che gli investimenti necessari nei prossimi 25 anni, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sono di almeno 45 miliardi di dollari, ben lontani dai 100 miliardi previsti dal Green Climate Fund). Per non dimenticare, poi, delle misure compensative necessarie per sostenere la transizione verso un’economia decarbonizzata nei paesi produttori di petrolio e gas.

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