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Peccato che Matteo Renzi, pur sicuro ormai di vincere le primarie di domenica prossima e di tornare quindi ad essere a tutti gli effetti il segretario del Pd, continui a porre ogni tanto il problema quanto meno prematuro di un suo ritorno anche a Palazzo Chigi. E vi pasticci pure un bel po’, fornendo argomenti davvero gratuiti ai tanti nemici che ha fuori ma anche dentro il suo partito, pur dopo la scissione consumatasi a sinistra.

A proposito di nemici o avversari interni, non parlo tanto di Michele Emiliano, tutto sommato inoffensivo per quel tono sempre sopra le righe che usa, per le troppe capacità che si attribuisce, persino quella di dimezzare, o quasi, il bacino elettorale di Beppe Grillo e insieme di poterselo fare alleato in un governo dopo le elezioni. E infine per quel segno beffardo della sorte che lo ha incidentato durante un ballo dal quale si sarebbe dovuto astenere con quella ingombrante stazza fisica che ha.

Parlo piuttosto dell’altro concorrente di Renzi: il flemmatico, per niente gradasso, ma astuto ministro della Giustizia Andrea Orlando. Che, consapevole di avere ormai perduto, a dispetto del “non si sa mai” di stampo un po’ propagandistico e un po’ scaramantico, ha già sistemato una trappola sul percorso del segretario adombrando o minacciando, come preferite, la proposta di un referendum nel Pd se Renzi dopo le elezioni preferisse come interlocutore di governo Silvio Berlusconi a Giuliano Pisapia, e alla relativa galassia del centrosinistra cosiddetto ampio. Un centrosinistra cioè comprensivo non solo di Pier Luigi Bersani, che forse l’ex presidente del Consiglio accetterebbe pure, facendosi una risata sulle sue crozzate ironiche, ma anche di quel Massimo D’Alema che Renzi non vuole neppure sentir nominare. Lui stesso, d’altronde, evita di farne nome, cognome o soprannome -“Baffino”- quando ne attacca la linea e il vero o presunto livore, preferendo alludervi soltanto. Tanto, l’uditorio renziano capisce a volo e procede ai fischi di ordinanza. Altro che risate.

Ebbene, un referendum interno al Pd, fra gli iscritti, sul rapporto con Berlusconi come alleato di governo, per quanto obbligato nel quadro di un risultato elettorale prevedibilmente sterile per un partito che non disporrà da solo della maggioranza dei seggi parlamentari, potrebbe risultare molto meno facile e scontato di quanto lo stesso Renzi non ritenga dopo una pur così netta vittoria congressuale.

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Non è poi detto che, una volta vinto il referendum interno al partito per preferire Berlusconi a Pisapia e compagni per la formazione di una maggioranza parlamentare, magari dopo il giro di prova di un incarico conferito ai grillini da Mattarella se dovessero raccogliere nelle urne più voti degli altri, il capo di Forza Italia accetti che a guidare il nuovo governo sia Renzi. Al quale un monito in questa direzione è stato appena lanciato giustamente in una intervista dal compagno di partito Goffredo Bettini, sostenitore di Orlando nella corsa alla segreteria ma abbastanza esperto di politica per sapere analizzare bene una situazione al di là della propria collocazione nello schieramento di cui fa parte.

I rapporti fra Renzi e Berlusconi, o viceversa, non sono più quelli di reciproca e non nascosta simpatia della fase iniziale del famoso “Patto del Nazareno”: quando l’allora segretario del Pd sdoganò in qualche modo, come partner delle riforme costituzionali, un Berlusconi appena decaduto da senatore per la condanna definitiva per frode fiscale, in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino. E lo stesso Berlusconi, dal canto suo, pur di tornare così presto sulla scena dei protagonisti, dimenticò o finse di dimenticare il contributo dato dietro le quinte dall’allora sindaco di Firenze alla gestione della sua decadenza dal Senato, cui si giunse addirittura con voto palese nell’aula di Palazzo Madama, e nonostante esponenti qualificati del Pd, fra i quali l’ex presidente della Camera Luciano Violante, avessero sapientemente suggerito di rimettere la controversa legge Severino all’esame della Corte Costituzionale.

Pur trattenuto da ambasciatori un po’ soporifori come Gianni Letta e persino Denis Verdini, al di là delle sue esuberanze verbali e fisiche, Berlusconi fu colto progressivamente da dubbi su Renzi. Che lo costringeva continuamente a concessioni indesiderate o sulla legge elettorale chiamata Italicum o sulla riforma costituzionale. Poi arrivò l’incidente finale e irreparabile della rottura sull’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, scelto personalmente da Renzi dicendo praticamente a Berlusconi: o prendi o lasci.

Che poi Berlusconi abbia scoperto tutte le qualità del nuovo capo dello Stato dimenticando trascorsi alquanto burrascosi, come le dimissioni di Mattarella da ministro, negli anni Novanta, contro la legittimazione delle tre reti televisive dell’allora Fininvest, è un altro discorso. Che appartiene alle opportunità o convenienze politiche.

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Ora Berlusconi, peraltro ancora privo della piena agibilità politica, in attesa e nella speranza che la Corte Europea di Strasburgo gli restituisca la candidabilità perduta con la condanna penale e con la decadenza da parlamentare, ha interesse certamente a rientrare comunque in gioco ma anche a proteggersi da una eccessiva esposizione e concorrenza elettorale di Renzi sul versante moderato.

Preferire a Renzi un altro esponente del Pd per la guida del governo, magari confermando a Palazzo Chigi il conte Gentiloni, potrebbe inoltre aiutare Berlusconi a ridurre la portata e gli effetti di una divaricazione nel centrodestra. Dove il segretario della Lega Matteo Salvini tratta Renzi come un nemico, rifiuta rapporti con chi ne ha avuti e ne ha col segretario uscente e rientrante del Pd, tipo Angelino Alfano, e tuttavia rimane per Berlusconi un alleato utile, se non necessario, per continuare a governare regioni importanti come la Lombardia, il Veneto e la Liguria, per non parlare delle città che già leghisti e forzisti amministrano insieme, o di quelle che potrebbero conquistare nelle elezioni comunali dell’11 giugno, ed eventuali ballottaggi dopo due settimane.

Ma anche sul versante di sinistra, se mai il Pd fosse costretto a cercare alleanze di governo in quella direzione dopo le elezioni, con o senza il referendum proposto o minacciato da Orlando, un ritorno di Renzi a Palazzo Chigi potrebbe risultare difficile, o addirittura impossibile. Lo stesso Orlando si è un po’ offerto al posto suo, dicendo, sia pure con troppa enfasi, che “solo” lui potrà unire, al punto in cui sono giunti i contrasti di natura anche personale, le componenti del centrosinistra, con o senza trattino.

E Renzi che farebbe? Condannerebbe il paese all’ingovernabilità pur di impuntarsi sulla propria candidatura ad una carica che peraltro è nella disponibilità, quanto a nomina, solo del presidente della Repubblica? E’ un’altra ragione, questa, per la quale trovo irrazionale, se non anche imprudente, il periodico ritorno di Renzi all’argomento e all’obiettivo di Palazzo Chigi, non accontentandosi della segreteria del partito.

Perché le smanie di Matteo Renzi di tornare a Palazzo Chigi sono irrealizzabili

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