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“Probabilmente” abbiamo avuto un ruolo nella vicenda, “un incidente involontario nella guerra”, come lo ha definito martedì Stephen Townsend, generale americano di stanza in Iraq perché capo dei militari che stanno combattendo lo Stato islamico. L’ufficiale si riferisce a quello che è successo il 17 marzo a Mosul, quando è finito sotto le bombe un edificio occupato da civili – sorte simile, poco prima, era toccata in Siria a una moschea. I due più sanguinosi danni collaterali che la lotta all’IS s’è portata dietro finora.

C’è un’indagine interna del Pentagono che sta cercando di fare chiarezza su questi attacchi aerei americani (o alleati) che hanno prodotto dozzine, se non centinaia. Non è chiaro quello che è successo. Nel primo caso è possibile anche che lo Stato islamico abbia usato scudi umani o addirittura contribuito alla distruzione dell’edificio, perché “i nostri missili non sono in grado di demolire un palazzo” ha spiegato Townsend; nel secondo pare che le informazioni di intel parlassero di un meeting di al Qaeda in corso all’interno del luogo di culto colpito (che non era chiaro fosse una moschea).

Su entrambe le situazioni la polemica per le vittime civili si è spostata anche sul lato politico. Tutte e due i bombardamenti sono avvenuti intorno alla metà di marzo, periodo in cui è iniziato l’aumento dell’impegno aereo statunitense. A questo aumento degli airstrike corrisponderebbe una maggiore apertura sulle regole di ingaggio americane concessa dall’amministrazione Trump. Lunedì, il colonnello John Thomas, portavoce del Central Commmad statunitense, ha negato che le norme operative seguite dai militari statunitensi che combattono il Califfo siano cambiate. Invece alcuni ufficiali iracheni hanno detto a Tim Arango del New York Times (che si è recato nel luogo dell’attacco a Mosul) di apprezzare particolarmente il nuovo approccio “più aggressivo” americano.

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È noto che Trump abbia chiesto di rivedere le regole per gli attacchi aerei, che al momento seguono un iter a volte lento. L’amministrazione Obama richiedeva che ogni singolo raid chiamato dagli iracheni sul campo venisse approvato con procedimenti che arrivavano fino a Washington. Era una garanzia per evitare al massimo gli effetti collaterali (un approccio che funziona, se si considera che la lotta al Califfato ha finora prodotto soltanto 220 morti civili per effetto dei raid alleati). Ora il nuovo Commander in Chief vorrebbe snellire la procedura per aumentare l’operatività e permettere ai comandanti sul posto di decidere direttamente se compiere o meno un attacco, sempre verificato, ma senza ulteriori procedure di approvazione della Casa Bianca. Gli ufficiali iracheni sentiti dal Nyt dicono che è una scelta necessaria, soprattutto adesso che la battaglia è entrata nel dedalo di vie di cui si compone Mosul Ovest, anche al prezzo dell’aumento di vittime civili.

(Ma è un prezzo sostenibile per gli Stati Uniti, o per gli altri paesi alleati della Coalizione? Con quali rischi? Con quali riscontri sulla popolazione locale? E che conseguenze avrà sull’opinione pubblica occidentale?).

 

Procede l'indagine sulle vittime civili americane in Iraq e Siria, ed è partita la polemica politica

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