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(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

Da vecchio estimatore del sistema elettorale proporzionale, diciamo pure da nostalgico, dovrei essere contento del suo ritorno e prenderlo come una rivincita sulla buonanima di Marco Pannella, di cui contestavo una trentina d’anni fa la predicazione del maggioritario, o sul mio carissimo amico Mariotto Segni. Col quale proprio pochi giorni fa parlavo della riforma elettorale in arrivo condividendone i timori, con sua grande sorpresa e soddisfazione, memore delle tante volte in cui ce ne siamo dette e scritte di tutti i colori per i suoi referendum pro-maggioritario.

Non dico di avere riconosciuto a Segni il merito di avere dato al proporzionale tante spallate, ma poco ci è mancato. Questo proporzionale, diciamo così, di ritorno non mi convince, e un po’ mi allarma, per il contesto politico in cui si sta andando indietro, non essendoci più i vecchi partiti forti e organizzati ai quali ero abituato. Essi sono stati sostituiti da movimenti – a destra, a sinistra e al centro – di cui non si può francamente dire che corrispondano a quelli di cui parla ancora l’articolo 49 della Costituzione, rimasto peraltro appeso per aria, senza una legge ordinaria che ne disciplinasse la vita. E che venne sollecitata per primo una cinquantina d’anni fa da Giulio Andreotti. Che non a caso nella sua lunga carriera politica inseguì tutte le cariche possibili e immaginabili fuorché quella di segretario della sua pur forte Democrazia Cristiana.

“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, dice la Costituzione. Ma che cosa significhi esattamente il “metodo democratico” Dio solo lo sa, specie in questa cosiddetta seconda Repubblica. Dove non si può dire che, per esempio, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi, Angelino Alfano, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e via leaderizzando gestiscano i loro movimenti democraticamente. E nell’unico partito, lo riconosco, in cui si vedono ancora riunioni di direzione e discussioni, cioè il Pd, il concetto di democrazia è diventato così singolare che una minoranza, peraltro sovra-rappresentata nei gruppi parlamentari, piuttosto che confrontarsi con la maggioranza e rischiare di perdere un congresso, ha preferito prima contrastarne le convocazione e poi andare via per mettere su un’altra “ditta”, come uno degli scissionisti, l’ex segretario Pier Luigi Bersani, usava e usa dire.

Con i vecchi partiti la formazione delle liste dei candidati al Parlamento era una cosa complessa, cui erano dedicate riunioni di direzione di durata lunghissima, e cariche di tensione. Adesso, con i nuovi partiti le liste sono preparate da persone che si contano, nella migliore delle ipotesi, con le dita di una sola mano. Di voti di preferenza, che erano l’ossatura del vecchio sistema proporzionale, non si può neppure parlare senza essere scambiati per responsabili di chissà quale mercato illecito. E si adotta con disinvoltura la pratica dei capilista bloccati, massima deroga alle liste interamente bloccate.

Col proporzionale di ritorno sento dire con obbrobrio che si torna, appunto, alla pratica del voto alla cieca, che lascia ai partiti la più ampia libertà di movimento dopo le elezioni. Le alleanze si deciderebbero non prima ma dopo le elezioni, all’insaputa degli elettori, o contro di loro. Che questo possa ora accadere è vero, anche se Massimo D’Alema è arcisicuro che Renzi e Berlusconi abbiano addirittura cambiato nomi all’anagrafe unificandone le due metà – Renzusconi – come pegno del governo che hanno già programmato per dopo le elezioni. Ma non ditemi, per favore, che ai tempi del “mio proporzionale”, quello della cosiddetta e tanto bistrattata prima Repubblica, gli elettori andavano a votare alla cieca, non sapendo con chi i loro partiti si sarebbero alleati per fare il governo o per restare all’opposizione. Questo potrà risultare vero per il proporzionale di ritorno, ripeto, ma non lo fu per niente col proporzionale di prima e autentica maniera: quello di cui ho e mi rimane la nostalgia perché garantito da partiti seri, che alle elezioni non andavano per niente alla cieca.

Nella stagione del centrismo, pur in mancanza di coalizioni predefinite alle quali ci ha poi abituato l’esperienza del sistema maggioritario, predefinite ma spesso destinate a dissolversi nel giro di qualche anno o mese, gli elettori della Dc sapevano benissimo che sarebbero seguiti governi con i liberali, i socialdemocratici e i repubblicani. E viceversa.

Quando lo scudo crociato decise di scaricare i liberali per sostituirli con i socialisti, passando quindi dal centrismo al centro-sinistra, con tanto di trattino, lo fece in un congresso, a Napoli, convocato e svolto l’anno prima delle elezioni del 1963.

L’unica volta che alle elezioni seguì un governo o una formula non prevista fu nel 1976, quando uscirono dalle urne, come disse Aldo Moro, due vincitori senza alleati predefiniti perché il Psi di Francesco De Martino aveva annunciato l’interruzione dell’alleanza con la Dc e la sinistra non aveva i numeri per fare da sola. Ma, anche se li avesse avuti, il Pci di Enrico Berlinguer non avrebbe neppure tentato l’avventura, tanto grave era la situazione del Paese. D’altronde, i comunisti allora miravano al “ compromesso storico”, non all’alternativa. E nacque la formula della cosiddetta solidarietà nazionale, decapitata dal terrorismo col sequestro e l’assassinio di Moro.

Esaurita quella stagione, si tornò, sempre dopo congressi e mai all’insaputa degli elettori, al centrosinistra allargato però ai liberali con la formula del “pentapartito”.

Non confondiamo quindi il sacro col profano. Il proporzionale che sta tornando, senza partiti solidi, o con partiti senza identità, rischia di farci rimpiangere anche quello straccio di maggioritario della cosiddetta seconda Repubblica. Che Dio, quindi, ce la mandi buona, fra un Renzi costretto forse ad usare all’indomani del voto le stampelle di Berlusconi, se basteranno, viste le difficoltà crescenti della ricostituzione del centrosinistra più o meno ulivista, dove D’Alema preferisce il tre per cento dei sondaggi ad una convivenza col Pd di marca renziana, e un Grillo che, se dovesse entrare davvero in partita, ci regalerebbe forse con l’aiuto di Salvini una Repubblica ancora più giudiziaria di quella sperimentata in questi anni. Magari con Piercamillo Davigo a Palazzo Chigi.

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