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Il conto alla rovescia è terminato. Il G7 di Taormina apre oggi i battenti con un ben preciso obiettivo: dimostrare al mondo che United We Stand (Noi siamo uniti). È l’obiettivo che, secondo Paolo Magri, vicepresidente esecutivo e direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), i sette capi di Stato e di governo devono raggiungere questo weekend. In un clima reso ancora più incandescente dall’attentato di Manchester e dalle tragedie dei migranti, va ribadito il valore originario da cui è nato il G7: essere la vetrina di una grande unità d’intenti.

Magri alla conferenza di Coface, tenutasi al Vodafone Theatre, sul rischio-Paese e sulle grandi tendenze dell’economia mondiale, racconta come la vera sfida sia quella di rifare ordine, rifare sistema, in un momento in cui l’instabilità politica condiziona molti Paesi. “Dobbiamo stare attenti a distinguere tra la retorica e la realtà” spiega Magri “Il G7 non ha mai avuto un ruolo cruciale nei destini del mondo. Si tratta di un vertice di sette Paesi, prima erano otto, simile a quello dei capi di governo dell’Ue. Con la differenza però che in Europa c’è la Commissione che ha il compito di mettere in pratica le decisioni, dopo il G7 invece ognuno torna a casa sua”.

E proprio quest’ultima considerazione porta a chiedersi quale sia il valore del G7. “In sostanza” aggiunge Magri “è il fatto di essere la vetrina, che oltretutto fa molto piacere al Paese ospitante, di una grande unità di intenti. I capi di governo si ritrovano e davanti al mondo dichiarano United We Stand. Era il valore più importante, e si è paradossalmente rafforzato quando è uscita la Russia che era l’unico caso di quasi-regime in mezzo a sette democrazie”. Ma qual è il problema oggi? “Forse il fatto di non sapere se questa unità d’intenti potrà essere esibita” spiega Magri.

Quindi il grande successo del G7 italiano sarebbe quello di confermare al mondo che l’Occidente è ancora unito, che condivide una visione comune. Una vera sfida. Perché a Taormina converranno Paesi che sono appena usciti da elezioni, come la Francia, oppure sono alla vigilia di una consultazione elettorale, come Gran Bretagna e Germania, o ancora andranno fra qualche tempo alle urne, come l’Italia. E non manca il caso di un Paese che attraversa vicissitudini all’interno, come gli Stati Uniti. In tutti questi casi i vari capi di governo si siederanno pensando ai rispettivi problemi di casa loro, più che ai problemi del mondo. E soprattutto, tra i sette leader c’è un signore, Donald Trump, che sui temi centrali che in passato avevano sempre visto l’Occidente compatto – cioè la fiducia nella democrazia e nel commercio, o la volontà di rallentare il cambiamento climatico riducendo l’inquinamento – sta facendo marcia indietro.

“Trump ha buttato una bomba in questa vetrina di unità” sottolinea Magri. Si pensi anche a un aspetto bizzarro: di solito i capi di governo presenti non stilano l’ultimo giorno del summit il comunicato finale: la dichiarazione finale è pronta dieci giorni prima, non viene fatta circolare ma è già scritta nero su bianco. “Ebbene” racconta Magri, “a un giorno dal G7 la dichiarazione finale non c’è ancora. Perché se Trump non vuole neppure che si citi la fiducia nel libero commercio, non si parlerà di commercio”. Così come al G7 dell’economia a Bari, la parola protezionismo non è stata inserita nei comunicati finali, perché l’Amministrazione Usa non la vuole.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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