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Un mio amico, Claudio Petruccioli, acuto osservatore della realtà italiana, ha pubblicato sul suo sito uno scritto sulla cosiddetta “armonizzazione” della legge elettorale a dir poco illuminante. Prima facciamo però un passo indietro nel tempo, e partiamo dalla famigerata “legge truffa” del 1953 (la definizione si deve forse a Piero Calamandrei). Essa è stata interpretata sia come un cupo episodio della restaurazione postbellica, sia come il tentativo di garantire una governabilità messa a repentaglio dalla frammentazione partitica. In ogni caso, prevedeva un premio di maggioranza a quella coalizione di partiti “apparentati” che, se avesse superato il cinquanta per cento dei consensi, avrebbe ricevuto il sessantacinque per cento dei seggi della Camera. Gli “apparentati” (democristiani, socialdemocratici, liberali, repubblicani, Sudtiroler, Partito sardo d’azione) nel 1953 mancarono il bersaglio per cinquantaquattromila voti. Il 31 luglio dell’anno successivo la legge fu abrogata.

Ricorda Petruccioli che essa riguardava solo la Camera. Perché? Per rispondere, ha curiosato tra i “misteri” del meccanismo proporzionale allora in vigore. Nel 1948 al Senato la Dc aveva ottenuto il 48,1 per cento dei voti e 131 seggi, pari al 55,1 per cento dell’assemblea di Palazzo Madama (i seggi di Senato e Camera diventeranno fissi -rispettivamente 315 e 630- solo nel 1963. Prima erano variabili, in quanto il testo originario della Costituzione prevedeva che un eletto corrispondesse a un numero prestabilito di elettori). Il sistema proporzionale allora vigente, insomma, assicurava al primo partito un premio “implicito” tutt’altro che trascurabile: il 7,1 per cento. Detto altrimenti: nel 1948 alla Dc bastavano 83.200 voti per eleggere un senatore, mentre al Fronte popolare ne occorrevano 96.800, 118mila ai socialdemocratici, 148.500 ai repubblicani, 164mila al Msi.

Per ottenere un effetto maggioritario al Senato non c’era dunque bisogno di ricorrere a una “legge truffa”. In verità, anche alla Camera un piccolo premio al partito maggiore era garantito: nel 1948 la Dc, con il 48,51 per cento dei voti, aveva ottenuto il 53,1 per cento dei deputati. Il meccanismo proporzionale consentiva l’equivalenza più o meno esatta fra voti ed eletti intorno al trenta per cento del consenso: chi lo superava veniva premiato, chi invece stava sotto veniva penalizzato.

Veniamo all’oggi: la legge attuale per il Senato, rispetto a quella dell’immediato Dopoguerra, ha sbarramenti piuttosto alti, per cui il premio “implicito” per chi si avvicinasse al quaranta per cento dei consensi sarebbe senza dubbio più alto di quel sette e rotti per cento di cui già usufruì la Dc. Inoltre, poiché la Consulta ha cancellato il ballottaggio ma ha mantenuto “quota 40”, chi oltrepassa quell’asticella avrebbe la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento. Per cui, chiede giustamente Petruccioli, basta con i diversivi che servono solo a guadagnare tempo: “Decidete di votare quando volete; ma le leggi elettorali non c’entrano; quelle che ci sono funzionano. Certo, non possono trasformare i nani in giganti. Se a “quota 40” non arrivate, datevi da fare. Crescete! E, per quanto riguarda i [partiti] minori, se volete entrare in Senato dovete superare in qualche regione l’8 per cento; altrimenti a casa […]”.

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Quando il sistema proporzionale non era poi così proporzionale

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