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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esautorato dal suo incarico il capo dell’Fbi James Comey. La notizia è stata diffusa a sorpresa martedì (tarda serata ora italiana).

LA LETTERA

La motivazione ufficiale della rimozione è contenuta nella lettera di licenziamento che è stata diffusa online. Pare che Trump volesse farla consegnare a Comey dal suo assistente (ex guardia del corpo personale) Keith Shiller, ma il direttore ha saputo del suo licenziamento attraverso i notiziari, mentre si trovava a Los Angeles per un incontro pubblico nella sede locale dei Federali. Nella lettera, firmata in calce da Trump, c’è scritto che il presidente ha accettato “le raccomandazioni” del procuratore generale, Jeff Sessions, che consigliava alla Casa Bianca di licenziare Comey per la conduzione dell’inchiesta sull’Emailgate. La vicenda è quella in cui Hillary Clinton finì sotto un’indagine conoscitiva per aver gestito durante il periodo in cui era segretario di Stato le mail istituzionali, di lavoro, insieme a quelle personali. Era una possibilità concessa, ma quando Clinton si trovò a riconsegnarle tutte al governo, in quanto documenti pubblici, ne cancellò alcune dicendo che si trattava di messaggi privati e così il Bureau si mise a indagare se c’era stato dolo. Ossia: voleva tenere nascosto qualcosa? Risposta sintetica: no. Solo “una grossa negligenza” fu il commento ufficiale di Comey al momento della chiusura della parte conoscitiva dell’indagine, con cui comunicava che i Federali (e dunque nemmeno il dipartimento di Giustizia) non sarebbero andati oltre perché non c’era niente di rilevante.

LA MOTIVAZIONE FORMALE

Che cosa contesta Sessions a Comey? Due aspetti collegati. Il primo, la riapertura dell’indagine: l’inchiesta sulle mail di Hillary era stata dichiarata chiusa da Comey stesso il 5 luglio del 2016, ma poi è stata riaperta il 28 ottobre del 2016 (a pochissimi giorni dal voto presidenziale, che si è tenuto l’8 novembre) perché altre mail di Clinton erano state trovate in un server durante un’indagine indipendente che coinvolgeva il politico democratico Anthony Weiner e sua moglie Huma Abedin, assistente personale storica di Clinton. Comey aveva spiegato la vicenda (nota) la scorsa settimana, quando ha testimoniato davanti alla Commissione del Senato che sta indagando sulle possibili collusioni tra la campagna di Trump e il Cremlino (questo è un argomento centrale, ma ci si tornerà). In quell’occasione Comey aveva spiegato che la decisione di riaprire l’inchiesta, e comunicarlo pubblicamente uscendo da una prassi consolidata secondo cui il Bureau non parla delle indagini in corso per non rischiare di alterarne la riservatezza, era stata una scelta necessaria.

L’ERRORE DURANTE L’AUDIZIONE

“Sono disgustato” al pensiero che possa aver alterato il voto – come invece aveva detto in quei giorni Hillary, addossando buona parte della colpa della sconfitta al fatto che la riapertura dell’inchiesta aveva minato la fiducia degli elettori indecisi poco prima del voto. In effetti per svariati giorni non si parlò d’altro, e le cose cambiarono poco quando Comey comunicò pubblicamente quanto repentinamente di aver archiviato del tutto l’indagine (a una settimana dal voto). Il direttore davanti al Congresso ha spiegato che la decisione di rendere pubblica la riapertura dell’inchiesta era stato un dovere istituzionale: voleva difendere le istituzioni, perché se fosse stato scoperto dopo il voto, che a quel punto dava Clinton completamente in vantaggio, del secondo round dell’indagine, sarebbe stato molto più problematico. Inoltre, durante l’audizione della scorsa settimana, Comey ha commesso un errore, perché ha detto che l’Fbi aveva riaperto il fascicolo in quanto erano state scoperte “centinaia, migliaia” di mail nei server di Weiner/Abedin, ma proprio martedì l’ufficio comunicazioni dei Federali ha diffuso un’informativa per correggere il tiro: non erano effettivamente “centinaia, migliaia”, ma molte di meno.

COMEY, FINORA

La comunicazione pubblica sulla riapertura dell’Emailgate (fatta senza avvisare il dipartimento di Giustizia, sostiene l’inquisizione trumpiana) e la dichiarazione sbagliata su quel numero di mail sono il motivo ufficiale per cui Sessions avrebbe ordinato la rimozione di Comey: le prove di queste incompetenze commesse da Comey – che indipendentemente dal caso specifico è considerato un buon direttore dell’Fbi da sempre – sono elencate in un report curato dal vice di Sessions. Che però almeno sulla questione inverte la rotta: la decisione di riaprire l’inchiesta su Clinton era stata accolta con favore da Trump, che ne aveva subito capito il peso elettorale, e anche successivamente Comey era stato considerato una sorta di baluardo della legge proprio per aver proseguito, schiena dritta e terzo, nonostante il rischio di sconvolgere il clima a pochi giorni dalle votazioni. Comey, per altro, fu subito confermato da Trump alla guida dell’Fbi, ed è stato uno dei pochi incarichi di discendenza obamiana su cui l’amministrazione finora non aveva messo mano. (Nota: il ruolo di capo del Bureau dura dieci anni e non è un incarico politico, sebbene il presidente possa deciderne le sorti in qualsiasi momento. Comey è un repubblicano nominato procuratore dall’amministrazione Bush e promosso al Bureau da Barack Obama).

IL RAPPORTO TRUMP/COMEY

Si potrebbe dire che la gestione dell’Emailgate era forse l’unico punto di contatto tra Trump e Comey, perché tra loro nel corso di questi primi quattro mesi di amministrazione le cose non sono andate benissimo. E ci sono state anche occasioni di scontro importanti, una su tutte: quando Trump dichiarò di essere stato intercettato dalle cimici piazzate da Obama, Comey disse che non era vero. Il New York Times scrive che il piano per mandar via Comey è in studio da settimane, e Trump aveva invitato Sessions a cercare una motivazione plausibile. Il motivo sostanziale di astio era l’indagine su quello che ormai viene definito il Russiagate. E qui ruota gran parte dei dubbi sul licenziamento: c’entra l’inchiesta sulle connessioni russe di Trump sulla decisione di rimuovere Comey? Come noto, l’Fbi sta conducendo indagini sui collegamenti tra gli uomini vicini a Trump e elementi ricollegabili al Cremlino dal luglio scorso, e questo è il principale filone di un’inchiesta ancora più grossa che cerca di capire come e quanto la Russia abbia avuto ingerenza sul voto americano: in sintesi i Federali stanno cercando di capire se c’è stato un piano di Mosca – fin qui dicono: c’è stato – con il quale la campagna Trump era collusa.

I DUBBI

Quella in corso è un’indagine su un fatto che rischia di minare i fondamenti stessi della democrazia americana; si immagini pensare a un’elezione presidenziale veicolata o alterata per mano dei russi, e al passo successivo: un candidato in combutta con Mosca. In tutta questa situazione è evidente che c’è un motivo di sospetto: Trump licenzia il capo dell’agenzia di controspionaggio che sta indagando sulla possibilità che la sua elezione sia stata irregolarmente alterata da un piano russo, e nominerà successivamente chi sarà a condurre quell’inchiesta. Meno esplicito ma sempre notevole: a consigliarlo sul da farsi è stato Sessions, capo del dipartimento di Giustizia che comanda l’Fbi, il quale è stato costretto a ricusarsi perché si è scoperto che durante le audizioni di conferma aveva mentito ai congressisti a proposito di alcune conversazioni avute durante la campagna elettorale con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti – che è uno dei punti di contatto tra Trumpers e russi che quell’inchiesta cavalca. E ancora: il procuratore generale rimuove da ricusato e con una motivazione apparentemente debole colui che dirige un’enorme inchiesta che coinvolge il suo capo, il presidente. In ultimo: sulla lettera di licenziamento firmata da Trump c’è scritto “benché apprezzi il fatto che mi abbia informato, tre volte, che non sono sotto inchiesta”. È un dettaglio riservato quanto nuovo – non si sapeva di queste comunicazioni personali tra Comey e Trump infatti – e non fa certo riferimento al motivo formale del licenziamento, l’inchiesta su Clinton in cui Trump non c’entra niente, ma evidentemente al Russiagate. Mercoledì Trump incontrerà il ministro degli Esteri russo nello Studio Ovale.

Bannon, siria, donald trump isis Corea

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