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Un secondo passaggio, necessario per guardare alla democrazia come processo, è quello “dal certo all’incerto”.

Sembriamo tutti assolutamente convinti che il nostro approccio consolidato alla democrazia che conosciamo possa resistere alle complessità del tempo storico; siamo certi di questo e, proprio esaltando questa certezza, facciamo un pessimo servizio a noi stessi e alla democrazia in quanto tale. Non ci rendiamo conto che, continuando così, la nostra “democrazia certa” diventa sempre più precaria, si svuota, muore.

Paradossalmente, più invochiamo flessibilità e più generiamo  precarietà.  Questo succede perché intendiamo la flessibilità come funzionale alla competizione “ad ogni costo” e non come il talento della democrazia-processo di “adattarsi” alle complessità della realtà e di ri-trovare dignità e senso nel mondo-che-è. Nel processo adattativo “vive” il “rischio dell’incerto”, di ciò che ancora non conosciamo ma che ci appartiene e ci condiziona comunque.

Esistiamo, non viviamo, nella convinzione del certo come sicurezza e dell’incerto come pericolo. Potremmo provare, invece, a immaginare il certo come una categoria dinamica, scoprendo che l’in-certo è il “profondo” del certo stesso.

Dunque, dentro al certo “vive” l’incerto che noi non vediamo perché poniamo la “ragione razionalizzante” a soffocare la complessità di ogni nostra possibile visione storica. Il certo “realistico” è quello che non può fare a meno degli antagonismi che lo caratterizzano e che lo percorrono (dunque, del suo  “profondo”).

Se vogliamo salvare la democrazia abbiamo la responsabilità di superare la nostra convinzione del certo separato dall’incerto.  Il che significa prendere atto che la categoria del “certo” come presunto autoreferenziale è solo una costruzione artificiale della nostra “ragione razionalizzante”; esso, dunque, non esiste.

Se guardiamo alla democrazia come a un processo che si  contestualizza, che si “incarna”, viene da sé che essa “respiri” naturalmente l’incerto che vive nelle complessità di ogni esperienza umana che  cerca di ri-pensarsi e di ri-costruirsi in chiave di con-vivenza.

Come possiamo non adeguare la  “certezza di noi” se il nostro destino-di-vita  è in ogni altro-di-noi  e nella realtà ? ; il che, sia chiaro, non significa che noi siamo chiamati ad annullarci, tutt’altro.  Semmai, siamo chiamati a narrarci e ad agire nella realtà con un occhio “realistico”, ri-congiungendoci con l’incertezza-che-siamo.

In questa prospettiva, la democrazia assume i contorni di un cantiere, di un laboratorio. Altresì, la democrazia diventa la nostra palestra di politicità, il luogo migliore nel quale esercitare il talento della mediazione e della visione, nel quale con-dividere la sfida della costruzione di classi dirigenti in grado di cogliere, di accogliere e di provare a governare i processi storici vitali.

Nel "profondo" del certo

Un secondo passaggio, necessario per guardare alla democrazia come processo, è quello “dal certo all’incerto”. Sembriamo tutti assolutamente convinti che il nostro approccio consolidato alla democrazia che conosciamo possa resistere alle complessità del tempo storico; siamo certi di questo e, proprio esaltando questa certezza, facciamo un pessimo servizio a noi stessi e alla democrazia in quanto tale. Non ci rendiamo…

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