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L’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara è ancora un dossier aperto. Il colpevole è morto, terminato dal raid delle forze speciali, e con la sua vita se ne sono andati anche i segreti che l’uomo portava con sé. Non emergono finora linee attendibili. Si parla per esempio di fantomatiche rivendicazioni da parte dell’ex Jabhat al Nusra, ora diventata Fateh al Sham e uscita dalla galassia qaedista a cui apparteneva come hotspot siriano della Base: “Fantomatiche” non perché impossibili, ma semplicemente perché è già due volte in pochi giorni che vengono tirate in ballo con seguenti smentite del gruppo – che pure resta in cima alla lista degli indiziati, non fosse altro per le frasi sparate dall’attentatore, riferimenti a versetti jihadisti e ad Aleppo, dove il gruppo era forte prima della sconfitta di queste settimane. Poi circolano le voci diffuse dai media di Ankara (ormai è difficile dire quale non segua la linea imposta dal governo, vessati anche i giornali dalle continue purghe presidenziali post-golpe): fantasiose costruzioni sullo zampino della Cia, che ha voluto minare il rinnovamento dell’intesa russo-turca; meno fantasiose ricostruzioni sul passato dell’attentatore, amico dei gulenisti di Fetö, entità guidata da Fetullah Gulen, nemico pubblica numero uno, a capo di un gruppo dichiarato terroristico ma che fino a pochi anni fa era uno dei centri di potere che ha aiutato l’ascesa di Recep Tayyp Erdogan.

Escluso l’aspetto interno (qui recenti analisi di Marta Ottaviani), spesso in Turchia vale la pena di concentrare il focus su certe scabrose, nuove relazioni estere che possono star dietro all’attentato come paradigma del futuro turco (e regionale). Ankara si è posta negli ultimi mesi su una linea di intesa, feeling, con la Russia: un rapporto di forza sbilanciato a favore di Mosca, ma su cui ruotano interessi che via via stanno diventando imprescindibili per entrambi. Terzo pezzo di questo gruppo di lavoro è l’Iran, che c’è perché tutto nasce attorno alla crisi siriana – per poi espandersi su interessi geopolitici, geoeconomici e geostrategici di più ampio giro, perché in fondo dei siriani in sé interessa poco o niente a chiunque. E quando si parla di Siria, Teheran ha un ruolo, perché sono sui gli uomini che muoiono sul campo; non sono tutti iraniani, anzi, arrivano per lo più dalle milizie sciite irachene, libanesi, afghane, ma sono emanazione diretta del pensiero politico-ideologico degli ayatollah, un piano strategico regionale se vogliamo. Quelle milizie sono il vettore regionalizzato della politica delle Repubblica islamica.

Martedì, il giorno dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo, il terzetto s’è riunito a Mosca e ha deciso un percorso comune sulla Siria (nota: questo genere di incontro fino a un anno fa sarebbe stato impossibile se non a mano armata, e qui s’è provato a spiegare perché, facendo un po’ di storia: sintesi, lo scorso anno di questi tempi Russia e Turchia erano ai ferri cortissimi). Il New York Times ha scritto che il vertice a tre ha messo “on the sidelines” gli Stati Uniti, che non sono stati invitati. È un’eccezione: di solito le trame internazionali si muovono sotto controllo americano. Stavolta non (o non più?). Ma il ministro degli Esteri russo ha avuto la cortesia di passare all’omologo americano le linee guida di un documento cofirmato con gli altri due partner (definirli alleati in effetti è troppo), suggerendo che loro non avrebbero fatto opposizione ad altre firme: ossia, Mosca ha proposto a Washington un documento per la pace in Siria sul quale Washington non ha nemmeno messo bocca, dicendogli qualcosa tipo “la situazione è questa, abbiamo deciso così, se ti va stacci altrimenti ciao” – per gli amanti dei tableau, nemmeno le Nazioni Unite erano state invitate al tavolo, ma la Russia ha fatto sapere che le decisioni prese contemplano la risoluzione approvata in sede Onu che prevedeva l’invio di funzionari a monitorare la situazione ad Aleppo, solo che la vicenda di Aleppo ormai è chiusa (con la vittoria del regime). Intanto però ha mandato la polizia militare a controllare la situazione ad Aleppo: e così saranno i gendarmi russi a controllare i controllori dell’Onu. Per chi ama il pettegolezzo, invece: il ministro degli Esteri russo, il potentissimo Sergei Lavrov, ha detto ai giornalisti presenti martedì al summit che lavorare con la Turchia per l’evacuazione di Aleppo è stato molto meglio degli “infruttuosi ritrovi con gli Stati Uniti”, si riferiva ai celebri talks di Ginevra, che in effetti vanno avanti con stanchezza da anni (nota: la Russia li vuole spostare in Kazakistan, cosa che chi ama la comicità non potrà non apprezzare, perché significa spostare i colloqui per trovare una pace che vedrebbe la rimodulazione delle pressioni di un rais, pena la continuazione di un’atroce guerra, in casa di un presidente che ha il potere egemonico da 26 anni).

A distanza di cinque anni dal “must go!” che Barack Obama aveva rivolto a Bashar el Assad, ora le forze governative hanno preso Aleppo senza che la Turchia a nord – e la Giordania a sud, altra alleata americana ma in feeling operativo con la Russia – muovesse un dito, anzi lo hanno fatto col beneplacito di Ankara, ricambiandolo con la libertà di azione contro i curdi. Al tavolo in cui si discute concretamente il futuro siriano mancano rappresentanti occidentali, ed è pacifico che nel futuro immediato il presidente Assad resterà al suo posto – nonostante Erdogan lo detesti, Vladimir Putin lo consideri fritto ormai da un paio d’anni, e gli ayatollah di Qom lo vedano come una mammoletta laica. Nell’immediato non c’è un’alternativa credibile, d’altronde, perché la rivoluzione è stata fagocitata dai jihadisti, e le opposizioni che si siedono a negoziare non controllano i combattenti sul campo: più in là è possibile che la Russia voglia innescare un processo di transizione anche come strategia personale per uscire dalla guerra. Sia il portavoce della Casa Bianca che quello del dipartimento di Stato hanno espresso scetticismo sulle capacità del team-a-tre di risolvere la situazione, ma il problema è che il loro ruolo e le policy delle istituzioni che rappresentano decadranno tra meno di un mese. Fluttua eterea l’ultima proposta del presidente eletto Donald Trump, che durante la tappa in Pennsylvania del tour di ringraziamento ha detto che lui – che prenderà lo Studio Ovale dal 20 gennaio – farà in modo di creare “zone sicure” per “la gente in Siria”. Chi le controllerà non è chiaro, ma ci sono indicazioni: Trump non ha un business plan siriano, però dice di voler lavorare con la Russia molto più di quanto ha fatto il suo predecessore, e quindi nelle idee del presidente eletto potrebbero essere loro, i russi, o gli alleati siriani, o meglio iraniani, a controllare quelle sacche di sicurezza da creare. Così fosse, addio ribelli, rivolta, rivoluzione – che tra l’altro pare finita da parecchio, almeno quella originale del 2011. O forse al nord potrebbero farlo i turchi, là dove i soldati di Ankara combattono per mettere al sicuro una fetta di territorio del Kurdistan siriano: la mettono al sicuro dalle ambizioni curde casalinghe, ufficialmente la liberano dal Califfato (che miete vittime turche, anche tra i soldati in Siria), ma ne bloccano gli ingressi alle brigate dell’Ypg curdo-siriane amiche del Pkk turco. Ma anche qui, i pesi di questa alleanza: il primo passo operativo di Russia, Iran e Turchia era stato il raggiungimento preliminare di una tregua che avrebbe dovuto far partire l’evacuazione di Aleppo (poi tutto è saltato, ma è stato un passaggio che alla fine ha effettivamente portato all’apertura dei lasciapassare). In quella prima intesa c’era la possibilità di lasciare libera scelta agli abitanti aleppini se andare verso Idlb o salire al nord verso le aree controllate dai ribelli filo-turchi. Questa seconda opzione è stata poi ritrattata e tolta dall’accordo, dopo che l’Iran s’è messo di traverso, ha fatto sparare le sue milizie contro le vie di fuga cittadine, e ha chiesto in cambio la liberazione di due villaggi sciiti nell’are di Idlib.

La troika siriana rappresenta un allineamento talmente importante che ha portato qualcuno al gesto simbolico dell’uccisione di un ambasciatore. Ma dietro a questo allineamento più che solidità c’è una sfiducia generalizzata tra i partner. A cominciare dai russi, che vedono i turchi necessari, ma che non si fidano affatto della loro stabilità. E  la cosa è ricambiata, perché la Turchia ha ben chiaro che nel progetto russo lo spazio per ascoltare le proprie richieste è relativo. Ankara mantiene però una forza maggiore rispetto a Teheran, non fosse altro per aver aperta dietro (o davanti) a sé la porta della Nato, di cui è membro rilevante. Gli iraniani sono i meno forti a livello diplomatico, perché anche la Russia li considera un peso ideologico da portarsi dietro, ma come si diceva hanno il valore del campo di battaglia dalla propria parte. La situazione si riassume in un’immagine circolata questi giorni online: all’incontro di martedì, la Russia s’era seduta da un lato, mettendo Iran e Turchia dall’altro. Dietro alle spalle dei delegati si muovevano le guardie del corpo. Quelle che hanno accompagnato gli iraniani si giravano spesso a controllare le mosse degli omologhi turchi: c’entra quello che è successo Karlov, c’entra un clima generale di sfiducia interno alla triade.

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