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Situazione paradossale per Fayez Serraj: il premier scelto dall’Onu per guidare il processo di rappacificazione in Libia è nel mondo il primo e unico vincitore formale di una battaglia contro lo Stato islamico. La cosa ha preso meno spazio nelle cronache, soprattutto quelle italiane, occupate più che altro a seguire, giustamente, la crisi di governo – anche se la faccenda libica c’è più vicina di quanto si pensi. Inoltre, pare che i misuratini morti (630 dice la conta, erano partiti in seimila, e ci sono almeno duemila feriti) valgano nell’epica ideologica che spesso guida le notizie un po’ meno di quelli di Kobane, forse pure perché i centri sociali e i loro più potabili rappresentanti si sono mobilitati di meno. Ma quest’ultima è una nota polemica personale affidata alle righe di questo blog, con un’altra nota più fattuale però: i politici di Misurata se ne stanno accorgendo di questa differenza di trattamento e si sono messi su una linea simile a quella di chi scrive, vogliono qualche riconoscimento e minacciano da giorni di marciare su Tripoli e schiacciare le opposizioni interne al governo. Questo nella lingua del conflitto libico vuol dire scontri armati pesanti con quelle milizie che non danno sostegno a Serraj e che fanno base nella capitale, per esempio il gruppo che si rifà all’ex premier non riconosciuto, ma vuol anche dire che loro sono forti, in grado di comandare (chi ha buon orecchie intenda, insomma). Ossia, vuol dire ulteriore instabilità: come se non bastasse già. Per esempio, il 7 dicembre le città di Bin Jawad e Nawfaliya vedevano sfilare un corteo militare verso i terminal petroliferi della Sidra, che attualmente sono controllati dagli uomini del governo di Tobruk, che si oppone al piano delle Nazioni Unite. Il responsabile di questo attacco, poi fallito, sarebbe stato Mahdi al Barghathi, designato da Serraj prossimo ministro della Difesa nel suo wannabe-governo. Ma gli uomini fedeli a Barghati sarebbero partiti verso Sidra in autonomia, ossia senza coordinamento con l’ufficio presidenziale guidato da Serraj, che invece sostiene la linea Onu del dialogo per appianare la crisi. E dunque, un ministro del governo si muoverebbe in autonomia, armata, rispetto al governo stesso: viene da chiedersi che potere abbia più Serraj, e pure quanto sia relativa a questo punto l’influenza giocata dall’Onu, dall’Europa e dagli Stati Uniti, sugli affari libici.

Commenti a parte, fatto sta che a Sirte, la “fiorente capitale” dello Stato islamico in Libia, il possibile “fall-back” del Califfo (per citare due definizioni che la città costiera libica s’era presa nei mesi scorsi, entrambe coniate dal New York Times), l’Is non c’è più. D’accordo, i baghdadisti libici sono dispersi per il paese, e la resilienza dei soldati del Califfato è nota: dunque poco da festeggiare a livello informale, perché la minaccia terroristica resta. Però Serraj, o meglio i suoi alleati sono i primi ad aver ripulito una nazione dalla dimensione statuale califfale – e non è poco, se si considera che è proprio questo l’aspetto che più di tutti gli altri ha caratterizzato l’Isis, l’essere uno stato, all’aria aperta, a differenza degli altri gruppi terroristici che erano cellule nascoste tra le grotte. Quella di Sirte se vogliamo è anche una grossa sconfitta per Abu Bakr al Baghdadi, fosse anche solo per il fatto che fu lui, il comandante spirituale-militare dell’intera organizzazione, a scegliere la Libia come luogo in cui inviare messi fidati di alto livello e riproporre uno schema simile a quello visto in Siraq. La caduta di Sirte è dunque per molti aspetti una sconfitta strategica per il Califfo in prima persona: la sua scelta di creare un hotspot nevralgico in Libia, per il momento (e si sottolinea), è stata non buona.

Ora il vincitore nominale di questa battaglia, Serraj, però avrà enormi difficoltà a sfruttarne i benefici, perché è praticamente rimasto inerme e semi-isolato. Nel paradosso tutto libico, questo sarebbe un momento positivo, visto che in Italia – il paese che più di ogni altro lo ha sostenuto dall’Europa – potrebbe diventare premier Paolo Gentiloni, l’ex ministro degli Esteri assiduo degli incontri libici e considerato da Tripoli il migliore degli amici occidentali. Ma Roma avrà le mani legatissime, perché dovrà seguire gli affari correnti e portare il governo più in là possibile senza traguardare però successi diplomatici. Probabile che salvo sconvolgimenti importanti legati a vicende clamorose, il dossier libico resterà sui tavoli di Palazzo Chigi senza nemmeno essere aperto. E tutto questo succede mentre a Washington, il paese che più di tutto gli altri si è impegnato per dare forza a Serraj, anche con azioni dirette come dare appoggio aereo ai miliziani che combattevano Sirte, la linea è cambiata. Il presidente Barack Obama, che già cominciava a vedere la Libia come un territorio di caccia per leader terroristici e non come uno stallo politico interno da risolvere per risollevare uno stato, uscirà dalla Casa Bianca per lasciare spazio a Donald Trump, il vincitore delle elezioni che ha già promesso che su certi dossier (Libia, Siria, e in largo ordine mondiale) intende collaborare con la Russia. E Mosca è l’unica grande potenza che non ha dato riconoscimento formale al tentativo di governo di Tripoli, ma anzi sostegno al nemico più forte di Serraj, che non è l’Is ma il generale Khalifa Haftar, il quale rappresenta il potere politico militare della Cirenaica, la regione “ribelle” che non vuole dare il consenso al premier incaricato dall’Onu. Insomma, Serraj è l’unico capo di governo ad aver battuto lo Stato islamico, ma il problema è che forse un governo vero e proprio non ce l’avrà mai.

Fayez Al Serraj

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