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Tre nuovi vescovi in comunione con Roma e approvati da Pechino. Segnale incoraggiante nel cammino di ricomposizione di un mosaico complicato dopo sette decenni di conflitto tra Vaticano e governo cinese. Ma non mancano le zone d’ombra nel cammino di riavvicinamento che, prima che di apertura di rapporti diplomatici, riguarda il nodo delle ordinazioni episcopali. In un paese dove sono presenti oltre 100 vescovi in un quadro confuso: alcuni sono approvati solo da Pechino, alcuni solo dal Vaticano e molti da entrambi.

L’APERTURA CONTROLLATA DEL REGIME

Nelle tre recenti ordinazioni, tutto è filato liscio il 30 novembre ad Ankang (Shaanxi), dove è stato fatto vescovo monsignor Giovanni Battista Wang Xiaoxun. Sia l’ordinato che i vescovi consacranti sono in comunione col Papa e riconosciuti dal governo. Diversa la situazione che si è creata nella regione centrale del Sichuan: per le due nuove ordinazioni le autorità hanno imposto la presenza intorno all’altare di un vescovo ufficiale e scomunicato. Sempre lo stesso: Lei Shiyin. E non è mancata l’assistenza della polizia.

I FEDELI PROTESTANO, LA POLIZIA SEQUESTRA

Eletto da Roma nel 2014, è stato consacrato vescovo a Chengdu, nella stessa giornata del 30 novembre, monsignor Giuseppe Tang Yuange. A presiedere la cerimonia c’era il vescovo Fang Xingyao, riconosciuto dalla Santa Sede e fedele al governo: è il presidente di quella Associazione patriottica dei cattolici cinesi bollata nel 2007 da Benedetto XVI come “incompatibile” con la dottrina cattolica. Il regime ha voluto che alla cerimonia presenziasse il vescovo Lei Shiyin, ordinato nel 2011 senza mandato pontificio, quindi scomunicato, e che si dà per avere amante e figli. I fedeli hanno protestato con uno striscione. Una suora ha cercato di fermarlo prima che entrasse in chiesa. La polizia lo ha scortato e ha provveduto a sequestrare i cartelli.

IN CHIESA SENZA MACCHINA FOTOGRAFICA

Contesto più ordinato, ma stessi protagonisti il 2 dicembre, a Xichang, per la consacrazione del vescovo John Lei Jiapei. Riconosciuto da Roma, ma evidentemente gradito a Pechino per un passato di fedeltà al partito: nel 2011 – riporta Églises d’Asie – è apparso in un video, vestito con i paramenti, cantando canzoni comuniste durante una cerimonia ufficiale. Anche qui, a presiedere la celebrazione, è stato il presidente dei cattolici patriottici, Fang Xingyao; mentre la polizia ha vigilato che non ci fossero manifestazioni di dissenso per la seconda partecipazione di Lei Shiyin e ha vietato l’utilizzo di macchine fotografiche e cellulari.

LO ZAMPINO DI PECHINO

Le tre ordinazioni episcopali – così come quella del 10 novembre scorso (Pietro Ding Lingbin a Changzhi nello Shanxi) – sono un segnale incoraggiante. I vescovi sono stati nominati dal Papa e ordinati da vescovi in comunione con la Santa Sede. Quindi sono ordinazioni valide e legittime. Tuttavia – annota Églises d’Asie – sono anche il segno che “il regime comunista ateo conosce molto bene le norme della Chiesa”, al punto da imporre le sue regole del gioco, pur senza sconfinare in maniera scomposta. Così le bolle papali di nomina dei nuovi vescovi sono state lette (come previsto), ma in privato e non davanti ai fedeli. Così Pechino in due occasioni ha introdotto alla cerimonia il vescovo scomunicato Lei Shiyin, ma senza che questo partecipasse direttamente con l’imposizione delle mani alla consacrazione dei nuovi vescovi. È il segno che il governo si riserva di agire come vuole persino nel corso della liturgia della Chiesa, osservano alcuni sacerdoti cinesi. Come riporta Asia News: ne soffre la libertà religiosa, “e questo indica il fallimento della diplomazia vaticana del kowtow (dell’inchino all’imperatore)”.

IL DIALOGO PROSEGUE

Dopo questa infornata di nuovi vescovi, il prossimo appuntamento cruciale per il dialogo sarà la Conferenza dei rappresentanti cattolici, che si dovrebbe tenere tra il 26 e il 30 dicembre. Si tratta di un forum di incontro tra vescovi, clero e laici. Nel 2010 il governo costrinse fisicamente i vescovi a partecipare alla Conferenza. La Santa Sede protestò. Come si svolgerà l’Assemblea, osserva per Vatican Insider Gianni Valente “è un test per verificare la consistenza del nuovo corso”.

FALCHI E COLOMBE

Al nuovo corso dei rapporti tra Vaticano e Cina guarda da sempre con pessimismo l’emerito di Hong Kong, l’ultra ottantenne cardinale Giuseppe Zen: siglare un accordo con il regime comunista significa “tradire Gesù Cristo” e andare verso una falsa libertà, dove i presuli della chiesa patriottica “non stanno predicando davvero il Vangelo ma l’obbedienza all’autorità comunista”. E commenta: “Forse il Papa è un po’ ingenuo, non ha il background per conoscere i comunisti in Cina”.

Esprime invece ottimismo Agostino Giovagnoli, docente di Storia alla Cattolica di Milano ed esponente della Comunità di Sant’Egidio, in prima linea con azioni di sostegno alle iniziative diplomatiche vaticane: “Roma è entrata più di quanto sembri nella nomina e nella ordinazione di questi vescovi. Si sta così sperimentando un modus operandi che potrebbe costituire la sostanza di un accordo formale tra le due parti”. Convinto del rapporto in corso è il sinologo Francesco Sisci: “Oggi il presidente Xi concede alla Chiesa molto più di quanto sia mai stato ottenuto da alcuna religione”.

NON SOLO RELIGIONE: TRUMP, TAIWAN E VATICANO

È un punto decisivo, sul quale insiste il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin: il negoziato riguarda la sola questione della nomina dei vescovi. Che spetta al Papa, che dovrà scegliere tra una rosa di candidati espressi dalla Conferenza episcopale cinese, ora controllata dal governo. Si dovrà poi trovare un accordo sui vescovi clandestini, che Roma vuole che Pechino riconosca, e gli otto che il Vaticano non accetta, perché ordinati illecitamente.

Ma lo scenario va oltre le vicende ecclesiali, ed è rilevante assai per Pechino. Osservava Sisci qualche giorno fa: “Un rapporto positivo con la Santa Sede aiuterebbe a sciogliere i nodi di tensione politica, ideologica e culturale che alcune forze in Europa e in America stanno creando intorno alla Cina”.
Di ieri la telefonata tra la presidente di Taiwan (che solo 22 stati al mondo riconoscono, tra cui il Vaticano) e Donald Trump – presidente eletto degli Stati Uniti, che non riconoscono ufficialmente Taipei. Trump nel suo programma ha promesso di imporre dazi sulle importazioni provenienti dalla Cina. Una triangolazione di rapporti Vaticano, Cina e nuova amministrazione americana che non potrà non riguardare anche la diplomazia della Santa Sede nella terra di Confucio.

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