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Lunedì mattina otto poliziotti sono rimasti uccisi in un attentato suicida ad Al Arish, nel Sinai settentrionale. Si tratta dell’ennesima azione lanciata dai militanti jihadisti contro le forze di sicurezza egiziane, che ormai nella Penisola stanno combattendo un guerra aperta contro uno dei primi hotspot extra-Siraq dello Stato islamico, la Wilayat del Sinai, come l’ex gruppo combattente Ansar Beit al Maqdis si fa chiamare dal novembre 2014, quando giurò fedeltà al Califfato. La BBC ricorda che dal 2012 al 2015 i jihadisti del Sinai hanno compiuto oltre 400 attacchi terroristici, mettendo in crisi il settore turistico locale, una delle anime dell’economia egiziana, e spingendo nel 2016 incursioni fino al Cairo e all’area delle Piramidi.

SISI A DURA PROVA

La Provincia del Sinai del Califfato sta diventando un incubo per il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che si disegna ai cittadini come uno sceriffo dal pugno duro contro gli islamisti, s’è scagliato con violenza contro la Fratellanza musulmana che dava sostegno al suo deposto predecessore Mohammed Morsi, cerca di muoversi nello scacchiere regionale spostando interessi in Cirenaica, ma non riesce a combattere adeguatamente il terrorismo prodotto dagli uomini di Abu Bakr al Baghdadi sul suo territorio. Anche per questo, in parte isolato dall’Occidente che ormai lo descrive come un dittatore, ha chiesto la sponda russa: in cambio di un affaccio sul Mediterraneo (forse la base navale di Sidi Barrani) e di influenza da giocare in un altro paese dell’area MENA, Mosca ha iniziato una collaborazione col Cairo, contratti di armamenti (in concorrenza con la Francia), alcuni uomini mandati a fare consulenza su qualche base militare.

LA PARTNERSHIP CON ISRAELE

La situazione nel Sinai si ripercuote anche su Israele, prendendo forma regionale. Come ha spiegato Strafor in un’analisi, lo Stato ebraico vive una fase di distensione dei rapporti con l’Egitto, molto giocata anche su una partnership strategica sulla lotta al terrorismo. Lo Stato islamico controlla il lato egiziano della Striscia di Gaza, una zona che permette il passaggio di rifornimenti di ogni genere all’area palestinese messa sotto embargo da Israele. L’IS nel Sinai sta forzando la mano contro Hamas, che amministra la Striscia, bloccando a volte questi passaggi e mettendo in crisi Gaza: è una lotta politica, perché i baghdadisti considerano Hamas nemica, in quanto non applica la sharia califfale e sarebbe disposta a un tregua con Israele pur di costruire uno stato palestinese, mentre il Califfato ha una visione imperialista senza confini dove la sovranità divina non accetta certo le elezioni a cui Hamas s’è sottoposta. È una situazione pragmatica, perché in altre occasione i passaggi seguono andamenti osmotici, quando ai baghdadisti conviene. Il Cairo ha cercato anche la sponda (discreta) di Hamas, incontrando la lotta a un nemico comune come l’IS, e si è fatto pontiere di arrangiamenti pragmatici anche tra Israele e il gruppo palestinese: collaborazioni non ufficiali, che nascono da una necessità comune, fermare il Califfo.

LE SOVRAPPOSIZIONI

Nell’ultimo anno e mezzo, spiega a Formiche.net Giuseppe Dentice, Assistant Research Fellow all’Ispi e PhD all’Università Cattolica di Milano, “nel consueto confronto/scontro tra Israele, Egitto e Hamas, l’IS ha rischiato di emergere (e affermarsi) come quarto e più pericoloso protagonista dello scenario politico regionale, muovendo la penetrazione politica, ideologica e militare dello Stato Islamico (IS) verso la Striscia di Gaza”. I primi segnali di queste sovrapposizioni arrivano dall’ultimo conflitto del 2014, aggiunge Dentice, quando gruppi salafiti più estremisti hanno avviato uno “shift” verso posizioni “più radicali e ideologicamente affini a quelle dello Stato islamico”, attivo appena al di là del valico di confine di Rafah (alcuni gruppi palestinesi si dicono addirittura affiliati alla Provincia del Sinai). Da qui arriva l’appeasement informale (e anche in questo caso molto pragmatico) di Cairo e Tel Aviv nei confronti di Hamas, utilizzato come controllore interno delle fazioni più radicali, spiega il ricercatore, perché gli israeliani temono il contagio dell’IS dal Sinai, Hamas ha paura di perdere il primato nella lotta di resistenza islamista palestinese, gli egiziani voglio sradicare il cancro interno. Già nell’attacco al Sarona Market di Tel Aviv, lo Shin Bet (il servizio segreto interno israeliano) aveva ricostruito possibili collegamenti con lo Stato islamico che aveva “ispirato” almeno due dei tre attentatori che hanno ucciso quattro persone. Link analoghi stavano dietro agli accoltellamenti della Knife Jihad, mentre alcuni uomini di Hamas sembra abbiano lasciato il gruppo e stiano combattendo in Iraq: il travaso è in corso, anche se non è una piena. E d’altronde il gruppo Ansar Beit al Maqdis, pochi mesi prima della bayah all’IS, aveva già rivendicato il lancio di alcuni razzi verso il territorio israeliano. Il governo israeliano ha attribuito all’ispirazione dello Stato islamico l’attentato che ha ucciso quattro soldati domenica a Gerusalemme.

Lo Stato islamico attacca di nuovo l'Egitto (da dove partono i problemi per Israele)

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