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L’ex Cavaliere, pur a malincuore, mandando una delegazione di Forza Italia alla manifestazione romana di sabato scorso a favore di elezioni subito, aveva mostrato disponibilità verso una nuova prova elettorale da affrontare insieme con i suoi vecchi alleati, pronto naturalmente in caso di sconfitta a riprendersi libertà d’azione per negoziare col Pd le solite, larghe intese. Che questa volta sarebbero imposte da un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, da cui non esce di solito dalle urne un vincitore in grado di fare da solo il governo. A meno che, naturalmente, non riesca a Matteo Renzi, Italicum alla mano nel testo uscito dall’ultima Camera di Consiglio della Corte Costituzionale, il miracolo di tornare a raccogliere il 40 per cento e più di voti raggiunto nelle elezioni europee di tre anni fa: in un’altra era politica, commentano i suoi avversari esterni ma soprattutto interni. Fra i quali ve ne sono disposti, come Massimo D’Alema e il governatore della Puglia Michele Emiliano, a fare una bella, la solita scissione, proprio per precludergli di più quel traguardo.

Emiliano ha addirittura minacciato di anticipare la scissione con una guerra di carte bollate, con le quali egli ha una certa dimestichezza come magistrato, per quanto in aspettativa: stato, questo, in cui non dovrebbe più trovarsi, visto ormai il lungo impegno politico che si è dato, come si sono accorti di recente al Consiglio Superiore della Magistratura, dove gli vorrebbero fare appendere ormai la toga al chiodo. Le carte bollate dovrebbero servire, in particolare, a imporre a Renzi le procedure immediate del congresso, prima delle elezioni. Ma questo percorso, che lo stesso segretario del Pd si era proposto dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, era stato contestato proprio dalla minoranza del Pd, di cui il governatore pugliese vorrebbe ora assumere la guida candidandosi contro l’ex presidente del Consiglio.

Evidentemente in quel momento gli avversari interni di Renzi si aspettavano che la Corte Costituzionale, oltre al ballottaggio e al diritto di candidarsi contemporaneamente in dieci posti, scegliendo poi quali collegi elettorali liberare con l’esercizio della “opzione”, si aspettavano che la Corte Costituzionale tagliasse via dall’Italicum anche i capilista bloccati. Che in effetti danno al segretario del partito una posizione di vantaggio nella definizione delle candidature, perché i capilista, appunto, non avrebbero bisogno del voto di preferenza necessario invece agli altri per l’elezione. È in gioco ora la capacità della o delle minoranze del Pd di negoziare questi posti ultragarantiti. I più pessimisti mettono minacciosamente nel conto, appunto, una scissione.

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Per tornare alle distanze che nel centrodestra si sono allungate fra Salvini e Meloni da una parte e Berlusconi dall’altra con le reazioni al vento che viene dall’Atlantico e soffia indubbiamente più sulle vele della Lega che di un partito moderato come vorrebbe essere Forza Italia, con tutti i suoi legami col partito popolare europeo, appena tradottisi nell’elezione dell’ex portavoce dello stesso Berlusconi, Antonio Tajani, a presidente del Parlamento d’Europa, va detto onestamente che l’ex Cavaliere non dovrebbe guardarsi solo dal Matteo padano e dalla giovane mamma di Ginevra, come mi pare che si chiami la figlia dell’onorevole ex missina.

Anche il direttore del Giornale di famiglia del presidente di Forza Italia, Alessandro Sallusti, non ha scherzato e non scherza sul fronte del trumpismo italiano. Egli ha appena riconosciuto al nuovo presidente degli Stati Uniti il merito di essersi deciso a curare quella specie di cancro che considera l’immigrazione con la chemio, e i suoi inevitabili e spiacevoli effetti collaterali, piuttosto che con l’aspirina europea. È un commento in linea più con le reazioni di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni, del concorrente Libero diretto editorialmente da Vittorio Feltri e della Verità di Maurizio Belpietro, che con la moderazione attribuita in questa fase politica a Berlusconi.

È una reazione, quella di Salvini e di Meloni, dalla quale non si è lasciato tentare, almeno sinora, neppure Beppe Grillo, per quanta ammirazione egli abbia recentemente espresso per il cosiddetto “uomo forte”, indeciso solo se preferire Trump a Vladimir Putin, o viceversa. Ma forse il comico pentastellare, peraltro marito di una iraniana, che avrebbe forse problemi adesso ad avventurarsi negli Stati Uniti con il suo passaporto, se ha conservato quello d’origine, ha altri guai per la testa. Sono notoriamente i guai capitolini di Virginia Raggi.

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Pur con tutto il garantismo che merita, forse superiore anche a quello che di recente le ha concesso il suo movimento con un tempestivo aggiornamento del cosiddetto codice etico, non è che la sindaca di Roma abbia dimostrato di sentirsi forte di fronte alle indagini per abuso d’ufficio e falso se ha lasciato chiedere dai suoi avvocati un rinvio dell’appuntamento datole per oggi, 30 gennaio, dalla Procura di Roma. Alla quale la signora nei giorni scorsi aveva mostrato di non vedere l’ora di presentarsi, sicura di sapere e potere difendersi sulla strada di quel grande pasticcio, quanto meno, che fu la nomina, poi revocata, del vice capo dei Vigili Urbani Renato Marra, fratello dell’allora capo del personale Raffaele, alla testa del Dipartimento del Turismo capitolino, con stipendio aumentato.

Tutto questo, naturalmente, sempre che le indagini a carico della sindaca di Roma si limitino a quel pasticcio e non riguardino o non rischino di riguardare anche altro.

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