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QUALI GLI SCOPI GENERALI DELLA RIFORMA?

La riforma costituzionale ha lo scopo generale di semplificare il nostro modello costituzionale, rendendolo più efficiente e funzionale alle sfide (europee e globali) di questa fase storica, agendo in particolare su: Parlamento (composizione, funzioni, prevalenza Camera, riduzione componenti), rapporti Stato-Regioni (più potere allo Stato), abolizione di enti non necessari (province, Cnel). Più precisamente si tratta di superare lo strano doppio monocameralismo (due Camere con stessi poteri e stessa valenza rappresentativa ad elezione diretta) ereditato dai costituenti e adattato negli anni dal 1948 al 1963, entrato in crisi definitiva con la caduta del vecchio sistema dei partiti e il passaggio alla democrazia maggioritaria; di rafforzare il governo (possibilmente investito del potere per decisione periodica del corpo elettorale); di ridurre costi superflui; di evitare eccessiva conflittualità fra Stato centrale, Regioni ed enti locali (chiarendo la supremazia – in ultimo – delle istituzioni centrali). E nel contempo si tratta di mantenere le fondamentali garanzie costituzionali, rafforzando – se mai – alcuni istituti di partecipazione (iniziativa legislativa, referendum popolari).

CHI HA SCRITTO LA RIFORMA?

La riforma RenziBoschi ha radici lontane e riferimenti recenti. Le radici lontane risalgono addirittura alla Costituente: non va dimenticato che la proposta che la Commissione incaricata fece all’aula, nel gennaio 1947, prevedeva proprio un Senato composto (anche) da rappresentanti dei consigli regionali. Poi prevalse la soluzione del doppione (elezione diretta e stesse competenze sia per la Camera sia per il Senato).
Tutte le proposte di riforma fallite in passato hanno puntato a una differenziazione radicale fra Camera e Senato (il doppione non ha e non ha mai avuto senso). Venendo a tempi recenti un riferimento preciso è la proposta Violante (2007) che però non fece strada nella brevissima XV legislatura (2006-2008, quella del II governo Prodi) e – soprattutto – il lavoro della Commissione di esperti nominata dal governo Letta (2013) e guidata dall’allora ministro Quagliariello. Varato nel febbraio 2014 il governo Renzi sono stati gli uffici del ministro per le riforme costituzionali (Maria Elena Boschi) a predisporre un progetto che raccoglieva e completava le proposte precedenti: diventando l’AS1429 (fu infatti presentato al Senato mentre la nuova legge elettorale, delle stesse settimane, iniziava il suo percorso alla Camera).
Il testo iniziale del governo è stato profondamente inciso in sede parlamentare (con miglioramenti, integrazioni, e qualche peggioramento). Esso ha subito una riscrittura incisiva al Senato, grazie soprattutto al lavoro dei relatori, Anna Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega). Gli emendamenti approvati sono stati decine, ricambiando 26 dei 44 articoli della Costituzione toccati dalla proposta governativa. Poi una serie di modifiche ed emendamenti (calcolati in circa il 10-15% del testo Senato) sono stati approvati anche dalla Camera (18 articoli modificati su 45). Infine il Senato ne ha approvati altri sette (ritoccandone 4), in un paio di casi ripristinando il proprio testo precedente.
Il testo Senato 2 (per dire così), dell’ottobre 2015 è diventato quello definitivo, fatto proprio dalla Camera l’11 gennaio 2016, nuovamente approvato dal Senato il 20 gennaio e – infine – per la seconda volta alla Camera il 12 aprile 2016.

CHI HA VOLUTO LA RIFORMA? 

I contenuti di massima di questa riforma sono stati voluti – guardando indietro nel tempo – da quasi tutte le forze politiche e culturali. Come accade, queste si sono poi divise sulle soluzioni specifiche. Senza andare troppo in là, si può ben dire che questa riforma è stata voluta prima di tutto dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma anche il presidente in carica, pur non pronunciandosi sulle scelte specifiche del testo approvato, ha detto già nel dicembre 2015 che era l’ora che il Parlamento e il paese si decidessero sul tema); in secondo luogo è stata voluta dall’intesa RenziBerlusconi del dicembre 2013 e gennaio 2014 (confermata fino al gennaio 2015 quando si ebbe la rottura sul tema dell’elezione del nuovo capo dello Stati); infine è stata voluta dai gruppi parlamentari della maggioranza di governo nonché da parte di quelli di opposizione (Forza Italia fino al gennaio 2015; fuoriusciti da Forza Italia e da altri partiti successivamente). Infine, parlando alla Columbia University di New York, nel corso della sua visita ufficiale negli Stati Uniti, Sergio Mattarella non ha nascosto valutazioni lusinghiere sulla riforma Renzi-Boschi («Dopo anni di dibattito il Parlamento sta per approvare un’importante riforma della Costituzione che trasforma il ruolo del Senato da seconda Camera politica, con le medesime attribuzioni della Camera dei deputati, in Assemblea rappresentativa delle Regioni e dei poteri locali»; «la riforma del Senato influirà sulla capacità di governare i problemi quando nascono e non dopo…», 11 febbraio 2016).

CHI HA VOTATO LA RIFORMA?

In ultimo, al Senato, la riforma è stata votata da 180 senatori su 315 elettivi il che rappresenta un solido 57% (ben oltre la metà più uno che è di 158 senatori, 161 considerando anche quelli a vita, dei quali però si è espresso solo il presidente emerito Napolitano, mentre la senatrice Cattaneo si è astenuta). Alla Camera da 361 deputati su 630 (sempre poco oltre il 57%).

Ma la riforma costituzionale è stata votata ben 6 (sei) volte. Presentata dal governo al Senato fu varata nell’agosto 2014; passò alla Camera che la modificò nel marzo 2015; il Senato la rimodificò nell’ottobre successivo; la Camera confermò quel testo nel gennaio 2016 e il Senato lo rivotò uguale sempre a gennaio 2016 (erano passati più tre mesi da ottobre). La Camera è attesa all’ultimo passaggio parlamentare previsto in aprile (quando saranno passati tre mesi dal suo primo voto, dunque in una data successiva al 10 aprile 2016).
Rispondere alla domanda ”chi l’ha votata” sarebbe semplice, se non fosse che il costante sostegno in termini numerici delle due assemblee nel loro complesso alla riforma non è andato di pari passo a una coerenza di atteggiamento dei partiti (o gruppi). Alcuni dei sostenitori della prima ora hanno cambiato idea, mentre in compenso i dissensi interni ad alcuni gruppi di opposizione (su questa come su altre questioni) ha portato alla costituzione di nuovi gruppi scissionisti sia fautori della riforma sia oppositori. Come se non bastasse, quasi tutti i gruppi (PD, FI-PDL, GAL) hanno registrato prese di posizione individuali di dissenso, rispetto a quella del gruppo (ad esempio  le dichiarazioni di voto del 8 agosto 2014 di Vannino Chiti, Mineo, Tocci; o quella di Augusto Minzolini in dissenso da FI-PDL; di Mauro da PI; quelle del 10 marzo 2015 di Rosy Bindi, D’Attorre, Rotondi etc.). Tutto ciò rende ogni valutazione complicata (e di per sé mostra quanto sarebbe utile contenere e contrastare un frazionismo che pare irriducibile).

Un’analisi di questa sequenza di votazioni dà la risposta alla domanda “chi ha votato questa riforma?”: consente di dire che questa è la riforma del PD, della maggioranza che sostiene il Governo Renzi, nonché di un folto numero di componenti del centrodestra che in una forma o nell’altra hanno ritenuto di restare coerenti con la scelta compiuta dal loro leader (Silvio Berlusconi) fra dicembre 2013 e gennaio 2015 (cioè dall’incontro con Renzi nella sede del Pd fino all’elezione del nuovo capo dello Stato). Ciò è così vero che – nonostante l’incredibile tourbillon, una vera e propria sarabanda – di spostamenti fra un gruppo e l’altro, di costituzione e di scioglimento di gruppi e gruppetti (autonomi o presenti come componenti nei due gruppi Misti), il numero dei fautori della riforma non è sostanzialmente mai cambiato! Al Senato 183, 179, 180! alla Camera 357, 367, 361: sempre dal 56% al 58% dei componenti di ciascuna Camera. Perfino sommando i due migliori esiti (183 e 367) e i due più deboli (179 e 357) si registra un totale di parlamentari per la riforma da 536 a 550: una variazione di 14 (su 936!) del tutto irrilevante, specie se si pensa a quante cose sono cambiate nel sempre agitato sistema politico italiano in questi due intensi anni.

Quanto al PD: con i suoi 300 deputati e i suoi 112 senatori i parlamentari PD costituiscono oltre i tre quarti dei fautori della riforma. Anche tenendo conto di alcuni dissenzienti (che non han votato o che addirittura hanno votato contro in alcune occasioni, alcuni lasciando alla fine prima il gruppo poi il partito), questa è, qualsiasi cosa si pensi nel merito, o una riforma targata prima di tutto PD.
A proposito del clima esasperato creato da alcune forze di opposizione nel corso di alcune sedute e votazioni parlamentari, si veda il verbale del 13 ottobre 2015 al Senato: «NAPOLITANO (Aut [SVP, UV, PATT, UPT]-PSI-MAIE). Domando di parlare per dichiarazione di voto. (I senatori del Gruppo M5S e numerosi senatori del Gruppo FI-PdL XVII escono dall’Aula)». No comment.

Infine, val la pena di notare che – ad eccezione dell’ultima votazione al Senato (quella del 20 gennaio 2016 quando fu condotto l’ultimo, ed unico, serio tentativo di bloccare la riforma legittimamente coi voti, non con l’ostruzionismo) e della penultima alla Camera (quella dell’11 gennaio 2016) – in ben quattro su sei votazioni finali, con un pretesto o con l’altro, tutti o larga parte degli oppositori della riforma hanno scelto di non partecipare al voto (per delegittimarlo e per non farsi contare, cercando di sommare gli assenti veri a coloro che sono contrari alla riforma): in linea con la moda dell’aventinismo da strapazzo che caratterizza le legislature recenti e questa ancor di più delle precedenti.

Quinta di una serie di puntate tratte dalla guida alla riforma costituzionale scritta dal prof. Carlo Fusaro. La prima è consultabile qui, la seconda qui, la terza qui, la quarta qui

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