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Non ci saremmo meravigliati se, a ridosso delle feste di fine anno, fosse stata emessa dalle autorità di governo un’ordinanza con la quale si faceva divieto in Turchia di celebrare il Natale ed il Capodanno. Tanto è stata assordante la campagna propagandistica di imam, giornali ed agitatori politico-religiosi militanti dell’Akp, il partito di Recep Tayyip Erdogan, contro le ricorrenze che da sempre nel Paese chi voleva poteva festeggiare, a prescindere dalla confessione di appartenenza. Sicché, davanti al dilagare della “demonizzazione” di “tutto ciò che non è musulmano” perfino la Diyanet, l’organo di vigilanza sulle questioni religiose che gestisce l’amministrazione del culto islamico, si è sentita in dovere di sposare le richieste degli estremisti più intolleranti.

Alla vigilia dell’ultimo dell’anno, migliaia di imam, dentro e fuori le moschee,  per la prima volta dalla caduta dell’Impero Ottomano, hanno invitato i turchi a rigettare atteggiamenti contrari alla loro tradizione. Accenti non diversi da quelli che usano i jihadisti si sono uditi dalle coste mediterranee alle più sperdute lande anatoliche. Se anche ad Istanbul, città aperta e cosmopolita per eccellenza, la battaglia culturale contro il Natale ha registrato toni inusitatamente accesi, vuol dire che l’islamizzazione della Turchia, condotta con metodo chirurgico da Erdogan fin dal 2002, quando prese inaspettatamente il potere, promettendo una società più disponibile all’incontro con l’Occidente, ha raggiunto livelli che dovrebbero preoccupare il mondo libero e gli stessi alleati della Turchia.

Erdogan, dai tristi giorni di Gezi Park, dalle manifestazioni di Taksim al fallito (e farlocco) colpo di Stato, ha mostrato ogni giorno di più la sua vera identità. La maschera è caduta e a nulla vale il continuo richiamo alla responsabilità del suo acerrimo nemico Fethullah Gulen nel golpe del 15 luglio scorso per giustificare la terribile repressione a cui ha dato vita e che dopo sei mesi ancora non cessa in tutti gli ambienti della società turca.

È facile che in un contesto siffatto, prosperino jihadisti che hanno maturato la convinzione che sia arrivato il momento per forzare la mano ad Erdogan stesso e si esibiscano nel loro repertorio criminale come è accaduto nella notte di Capodanno sul Bosforo nel night club “Reina”. È probabile che gli abbiano voluto far sapere che loro, frutti marci della predicazione  islamista in salsa turca, non gradiranno ancora per molto il disimpegno di Erdogan a fianco del Califfo (che c’è stato sia pure in maniera surrettizia) e non accetteranno mai che la Turchia condivida a lungo le posizioni di Mosca e di Teheran agevolando la realizzazione di un piano di pace in Siria che sarebbe dannosissima all’espansione di Daesh nell’area.

Sono questi jihadisti autoctoni, coltivati nelle serre dell’estremismo islamico  al riparo dagli occhi indiscreti dal regime di Ankara, a ricordare ad Erdogan che ogni sua mossa non passerà inosservata all’analisi strategica del sinedrio del terrore che da Raqqa guida l’offensiva contro gli “infedeli”.

L’Isis ha rivendicato la strage di Istanbul facendo proprio riferimento ai crociati ed ai cristiani caduti sotto la violenza islamista. Potrà tollerare che per motivi puramente e comprensibilmente geopolitici Erdogan sia oggi alleato di Putin quando ieri ne bombardava gli aerei, che vada a braccetto con gli ayatollah iraniani mentre fino a poco fa neppure si parlavano, che di fatto sostenga Bashar al Assad dimenticando di averlo combattuto dopo essergli stato amico così come lo era stato di Gheddafi poi rinnegato e di tanti altri con cui ha fatto affari politici (e non solo) onde giovarsi cinicamente del suo versipellismo?

Dall’Isis non verranno fatti sconti ad uno statista da suk come Erdogan, un  Sultano di cartapesta abituato a tradire tutto e tutti, sempre e comunque. Putin lo conosce bene. E per ora se ne serve. La politica del leader russo, volta a mettere insieme un articolato fronte sciita contro l’universo sunnita non può che esasperare il Califfato che ha inviato  i foreign fighters nel caldo ricetto della Turchia islamizzata. Se Erdogan lamenta le vittime del bagno di sangue sul Bosforo, non può attribuire ad altri che a se stesso la responsabilità dell’accaduto avendo costruito una confortevole tana islamista nella quale, paradossalmente, i suoi stessi nemici di oggi si sentono al sicuro, perfino invulnerabili.

Ecco i danni, ampiamente previsti, dell’islamizzazione della Turchia. Dove tutti sono esposti ai rischi di rappresaglie imprevedibili. Chi lo avrebbe detto all’alba della conquista del potere del giovane ed intraprendente musulmano che con la sua intelligenza politica si era fatto accettare anche da chi musulmano non era? Gli europei a quel tempo erano disposti a firmargli tutte le cambiali che esibiva. Non aveva ancora rivelato il suo vero volto e lo si apprezzava anche per come discretamente presentava sua moglie velata nelle occasioni pubbliche.

Mancavano pochi giorni a Natale nel 2004. Ankara era una sola luminaria. Le lucine addobbavano tutti gli alberi della città. Uno spettacolo di rara bellezza che conferiva una certa grazia ad una città che proprio piacevole non è. Ci domandavamo come mai. Un turco amico, un islamico colto e gentile, ci disse  che ovunque il Natale era la festa di tutti anche di chi non credeva. E ci offrì una birra. Mai avremmo imaginato di leggere un giorno cartelli ispirati all’odio religioso, al fanatismo più criminale: “Müslüman Noel Kutlamaz”, un musulmano non festeggia il Natale.

Il frutto avvelenato è alla fine caduto dalla tavola imbandita da Erdogan.

IL FOTO-RACCONTO DI FORMICHE.NET

may

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