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Anche a costo di sembrare indulgente con Beppe Grillo, una cui vittoria elettorale considererei una disgrazia per il paese e per lui stesso, che finirebbe di divertirsi con la politica per esserne personalmente travolto, non capisco lo scandalo che ha procurato il suo apprezzamento per il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ma anche per il meno nuovo presidente russo, Vladimir Putin, come uomini “forti”.
Cerchiamo di non prenderci in giro. Tutti aspirano, anche quelli che ipocritamente lo negano, ad essere governati da uomini forti, piuttosto che flaccidi, indecisi, pavidi. Il problema sta naturalmente nella misura, nel modo di esercitare e concepire la forza. I forti debbono fare paura, ed essere biasimati e combattuti, solo quando sono in realtà, o diventano, prepotenti.
Per restare alla vicenda americana, dalla quale questa polemica è nata, non si può dire che l’avversaria di Trump, cioè Hillary Clinton, non fosse o non sia una donna altrettanto forte. E che non piacesse proprio per questo ai suoi elettori. Che peraltro, a conti fatti, sono risultati ben più numerosi degli altri, penalizzati soltanto dalle regole del gioco americano, scambiato da molti per quello che non è, cioè l’elezione diretta del presidente. Nossignori, negli Stati Uniti gli elettori eleggono direttamente solo gli elettori, a loro volta, del presidente, con tutti quei numeri di delegati che si vedono ogni volta scattare sui teleteschermi Stato per Stato della Confederazione, per cui può appunto accadere che la somma dei voti degli Stati non coincida con quella delle preferenze in realtà ottenute dai candidati.
Grillo se fosse stato americano, avrebbe forse tenuto da ridire su questo. E sarebbe stato un contestatore del Trump eletto in tal modo. Ma egli è italiano. E dalla sua Liguria vede le cose in modo diverso. Gli sta meglio Trump che la Clinton. Sono affari suoi.
Lo stesso Grillo, poi, perché piace tanto ai suoi elettori, che continuano a votarne il movimento a prescindere da tutto e da tutti, anche dei casini interni? E scusate la quasi parolaccia. Egli piace agli elettori delle 5 stelle perché è considerato un uomo forte, capace di mettere ordine anche dove chiaramente ha dimostrato di non riuscire, cioè a casa sua, fra i cosiddetti “portavoce”. Dei quali, dall’inizio di questa loro legislatura di esordio, parecchi sono stati espulsi dal movimento o sono andati via spontaneamente, magari qualche giorno o settimana prima dell’espulsione in arrivo.

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Questa è la verità dei fatti. Negarla sarebbe inutile. E le cose non cambiano se spostiamo lo sguardo dalle 5 stelle di Grillo altrove, nel panorama politico italiano.
Umberto Bossi è stato il capo della Lega fino a quando ne ha avuto la forza, appunto, intesa sia come forza fisica sia come carisma. E gli è subentrato, dopo la parentesi di Bobo Maroni, un giovanotto che si può ben considerare forte, com’è ed è avvertito Matteo Salvini.
Forte, in quel che resta di Forza Italia, dopo tutti quelli che sono andati via perché stanchi di ubbidirgli o di rimanere appesi alle sue indecisioni o ai suoi umori, è Silvio Berlusconi. Dietro i cui sorrisi e le cui barzellette, credetemi, non c’è per niente un uomo accomodante, come lui si vanta di essere con la storia del “concavo” e del “convesso” che sarebbe disposto a diventare, secondo le convenienze. Che inevitabilmente sono sempre o prevalentemente le sue, com’è del resto naturale e umano che sia.
Forte naturalmente è Matteo Renzi, il segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio. Di cui un amico e ammiratore indiscutibile come Oscar Farinetti ha ammesso che non ha saputo conciliare la sostanza e l’apparenza, per cui è apparso più che forte, prepotente e presuntuoso. Cosa che gli è già costata la guida del governo, con la stangata della bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale, e potrebbe costargli, se non sta attento, anche la segreteria del partito.
Nonostante questo, Farinetti continua a considerare il suo amico Matteo un “fuoriclasse”, anzi l’unico sul mercato, diciamo così, della politica italiana. Da cui tuttavia allo stesso Farinetti, in una intervista di qualche giorno fa ad Aldo Cazzullo, è scappato di dire che all’amico sarebbe convenuto più staccarsi del tutto, con un lungo soggiorno all’estero, che riproporsi una rivincita a breve.
E’ geneticamente, direi, un uomo forte anche il maggiore avversario di Renzi, che è Massimo D’Alema. Il quale non riesce proprio a trattenere, dopo ogni cosa che dice, quella smorfia o quel tono che significano praticamente la impossibilità o inutilità di contraddirlo. Quel suo “diciamo” alla fine di ogni battuta o attacco è il sigillo della convinzione ch’egli ha di parlare mai a titolo personale ma sempre a nome di tutti, anche di quelli che gli sono davanti e non sono d’accordo con lui.

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Una testimonianza della forza di D’Alema sopra le righe è stata appena data dal mite e saggio Gerardo Bianco, che in una intervista ha raccontato le ragioni e le persone alle quali si deve il fallimento dell’esperienza dell’Ulivo, simbolo delle prime coalizioni del cosiddetto centrosinistra nella seconda Repubblica: cosiddetto, perché il vero centrosinistra risale naturalmente alla prima Repubblica, e non comprendeva i comunisti, i cui eredi invece sono stati componenti essenziali del centrosinistra della seconda.
Di D’Alema il buon Gerardo Bianco, allora segretario del Partito Popolare Italiano, seconda componente numerica del nuovo centrosinistra, ha denunciato “la spinta egemonica” esercitata nei rapporti con gli alleati. In effetti, il Romano Prodi scelto da tutti come leader della coalizione e candidato alla guida del governo venne in qualche modo sequestrato dall’allora segretario dell’ex Pci, appunto D’Alema, con quella cerimonia d’investitura in un teatro romano durante la quale mancò solo il gesto della spada appoggiata dallo stesso D’Alema sulla spalla del professore emiliano.
Quando il primo Prodi cadde, nell’autunno del 1998, D’Alema liquidò la pretesa del presidente del Consiglio dimissionario di ottenere una nuova e più solida investitura elettorale e volle sostituirlo personalmente a Palazzo Chigi, anche a costo di cambiare maggioranza.
Ora Prodi, per quanto ricaduto dopo dieci anni da quel lontano 1998, e D’Alema insieme hanno avuto il coraggio, pensate un po’, di riproporre come attuale quella stagione. Mah!

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