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La sinistra lo ha condannato e François Hollande ne ha preso atto. Reagendo nell’unico modo possibile. La rinuncia a presentarsi alle presidenziali la prossima primavera era nell’aria. Poteva rischiare di uscire di scena sonoramente battuto? Più dignitoso togliere il disturbo subito. I sondaggi, del resto, da mesi sono impietosi. Impossibile immaginare una sia pur tenue rimonta. Se si fosse riproposto come candidato della sinistra, attorno e contro di lui sarebbero fiorite altre candidature che ne avrebbero minato ancor più il consenso.

Con la sua decisione, tuttavia, Hollande non ha ricompattato la gauche. Ai nastri di partenza delle primarie si affolleranno personaggi in cerca d’autore accanto a qualcuno, come Manuel Valls, che qualche chance di raccogliere un po’ di consensi ce l’ha. Ciò non vuol dire che la sinistra ritroverà l’unità perduta già prima che Hollande vincesse le elezioni nel 2012. La sua fu una candidatura molto contrastata nello stesso Ps, mentre la sinistra più radicale si riconobbe in Jean-Luc Mélenchon, massone e leader di un fronte gauchiste nel quale si ritrovarono le molte anime fuoriuscite dal Ps e orfane di quel Pcf dissoltosi nel nulla.

All’orizzonte si vedono avanzare numerosi concorrenti, qualcuno spera di essere percepito come la novità assoluta. Per esempio il trentottenne Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia, che si presenterà come indipendente alle elezioni presidenziali. A Bobigny, qualche settimana fa, ha criticato i «blocchi» che, a suo giudizio, paralizzano la Francia: «Il sistema ha smesso di proteggere coloro che doveva proteggere (…) La politica vive ormai per se stessa ed è più preoccupata della propria sopravvivenza che non degli interessi del paese». Per giustificare la sua candidatura fuori dai partiti tradizionali, l’ex ministro ha sottolineato la «speranza» che intende rappresentare: «Il mio obiettivo non è quello di riunire la destra o la sinistra, ma di riunire i francesi», ha spiegato. Voluto al governo da Hollande, al posto di Arnaud Montebourg, Macron è stato iscritto al Ps dal 2006 al 2015. Per molti osservatori è «il più liberale della squadra di governo» dal quale, non condividendone più le politiche, si è dimesso il 30 agosto scorso ed ha fondato un suo partito centrista, En Marche! (In marcia). Amato da socialisti dissidenti, tra cui l’ex-ministro della Cultura Aurélie Filippetti (compagna di Montebourg), è visto come il fumo negli occhi dalla sinistra-sinistra che mai lo appoggerà. Tuttavia, ad una settimana dalle sue dimissioni dal governo, e senza nemmeno essersi candidato, i sondaggi lo davano al terzo posto al primo turno delle presidenziali, dietro a Marine Le Pen e al candidato dei Repubblicani, davanti rispetto ai potenziali candidati di sinistra ed estrema sinistra, ma Fillon non era ancora sceso in campo e di Valls nessuno parlava ritenendo Hollande deciso a correre comunque.

Adesso tutto cambia anche per Macron il quale per sperare in una affermazione, dovrebbe affrettarsi a convincere il “campo progressista” indeciso che, dunque, non si identifica in modo monolitico né con la destra né con la sinistra. Ma chissà se basterà.

La spina nel fianco di Macron, comunque, rimane Valls. Il primo ministro che un anno fa, prima delle elezioni amministrative, evocò la “guerra civile” ipotizzando la vittoria del partito di Marine Le Pen. Non fu la sua un’uscita felice. Oltretutto non rianimò la sinistra che continua a vederlo come l’alter ego di Hollande del quale ha condiviso tutte le deficitarie politiche che hanno impoverito la classe media francese con una tassazione che mai ha raggiunto livelli tanto insostenibili, e sul piano della sicurezza ha raccolto insuccessi clamorosi finendo per avallare la decadenza della cittadinanza per i terroristi, misura che oggi il presidente uscente si rimangia non immaginando, evidentemente, che è stato il solo provvedimento apprezzato dalla maggior parte degli elettori.

Hollande lascia una Francia divisa, incerta, impaurita. Mai bilancio di un presidente della Quinta Repubblica è stato così misero, peggiore perfino di quello di Sarkozy. Si dice che, davanti alle devastazioni del suo predecessore, Hollande non sia riuscito a fare molto per invertire la rotta. La verità à che non è stato all’altezza. Dalle sue vicende personali che non gli hanno certo attirato simpatie, alla sciagurata pubblicazione di un libro nel quale scaricava su altri responsabilità soprattutto sue, alle posizioni confuse nei rapporti con l’Unione europea ed in particolare con la Germania, Hollande ha percorso strade impervie e tortuose che hanno evidenziato i suoi limiti favorendo la Le Pen ed ora Fillon. Chiunque, a fronte della sua presidenza può dire: “Lo Stato è fallito”. In Francia è una bestemmia. E chi l’ha provocata non può certo pensare di tentare ancora una volta di tornare all’Eliseo. Hollande, almeno questo, l’ha capito.

Vi racconto la Francia che lascia Hollande (e come si agitano Macron e Valls)

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