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Mai come quest’anno le previsioni del governo sul “che fare”, nella manovra di bilancio, hanno fatto discutere. Dubbi sono stati avanzati da tutti gli organismi chiamati a raccolta al capezzale del malato: dalla Banca d’Italia alla Corte dei Conti; dall’Istat (più possibilista) all’Ufficio parlamentare di Bilancio. Quest’ultimo, cui spetta in base alle regole europee di validare il quadro macro-economico, è stato, indubbiamente, il più spigoloso. Colpa della fede bersaniana della presidenza, come sostengono alcune malelingue del Parlamento o semplice rigore di fronte a numeri incerti?

Il clima pestifero del referendum sembra comunque aver contagiato Palazzo Montecitorio, in un abbraccio che ha visto uniti tecnici e politici. Peccato. L’Italia, in questo momento, non ha bisogno di ulteriori pregiudizi, le cose sono già troppo complicate per conto loro. Ed allora è bene cercare di capire cosa sta realmente accadendo nel corpaccione dell’economia nazionale.

La prima considerazione è che con Renzi si è chiusa definitivamente la fase dell’austerity. Il capitolo scritto inizialmente da Mario Monti, ma continuato anche con Enrico Letta. Risultato? Una caduta da capogiro del Pil: meno 2,8 nel 2012 e meno 1,7 nel 2013. E c’è andata ancora bene. Se l’estero non fosse venuto in nostro soccorso, facendo crescere l’export, avremmo quasi raggiunto il triste primato del 2009. Quel meno 5 per cento, che fu il dato peggiore dal 1971. L’estero ha rialzato l’asticella dello sviluppo di 2,9 punti di Pil nel 2012 e di 0,9 l’anno successivo.

Una piccola manna, purtroppo, non destinata a durare. Il primo anno di Matteo Renzi si è chiuso infatti con una crescita zero da parte del l’estero. Se non si fosse spinto sulla domanda interna, come invece è avvenuto, si sarebbe verificato un calo ulteriore. Un disastro. Merito degli 80 euro, distribuiti per facilitare – diciamo così – il risultato delle elezioni europee? Forse, no. Però a quella misura le aziende hanno creduto. La crescita del Pil è stato infatti dello 0,2: interamente sostenuta dalla variazione delle scorte che sono aumentate di 0,6 punti di Pil. In altre parole le aziende hanno riempito i magazzini, puntando su un tempo migliore.

Scelta giusta? I fatti hanno dato loro ragione. Il 2015 si chiude, infatti, con una crescita dello 0,7 per cento. Grazie ad una domanda interna che aumenta di 1,1 punti di Pil, mentre l’estero ne distrugge lo 0,4. Dati che mostrano un cambiamento dello schema di fondo. Nella fase dell’austerity si poteva anche pensare ad un’economia export-led, come dicono gli economisti. Un’economia, cioè, in cui il segno di vita è solo nella dinamica del commercio internazionale. Ma venuto meno questo motore, se non si accresce la domanda interna è solo una triste agonia.

Le previsioni del Def anticipano questo scenario. Dare retta ai burocrati di Bruxelles o rimanere con le mani in mano significa solo diventare paladini di una morte annunciata. Quest’anno, se va bene, l’economia crescerà solo di 0,8 punti. Ma già l’anno successivo subirà un piccolo contraccolpo negativo, dato da una crescita più bassa: pari a 0,6 punti di Pil. Dopo la grande depressione montiana, le acque infide di una palude.

Se questo è lo scenario, certificato dai numeri dell’Istat, ci saremmo aspettati un dibattito più sereno: alla ricerca delle misure più efficienti. Quelle cioè che con minore spesa possono far crescere il Pil un tantino di più. Anche in questo caso sempre gli economisti parlano del “moltiplicatore”. Ed invece, nulla di tutto questo. Solo voci stentoree e battute da osteria. Speriamo solo che il referendum arrivi presto. E che si possa tornare a ragionare.

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