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La scoperta di nuove riserve di petrolio o gas ha toccato nel 2016 il punto più basso degli ultimi 60 anni, con appena 174 nuovi giacimenti rinvenuti su scala mondiale; fino al 2013 la media mondiale era di 400-500 l’anno. Lo ha calcolato la società di ricerche IHS Markit: le aziende dell’oil&gas spendono molto meno, soprattutto nell’attività di esplorazione, ed è anche difficile trovare giacimenti nuovi di entità rilevante. E’ la fine dell’era del petrolio? No, ma potrebbe essere un incentivo ulteriore alle fonti “non convenzionali”. E comunque nemmeno le esplorazioni convenzionali vanno così male, secondo un’altra società di ricerche, Wood Mackenzie.

PIU’ PETROLIO DALLE ROCCE

Le esplorazioni di frontiera avvengono ormai quasi tutte offshore, dove un singolo pozzo può costare anche 150 milioni di dollari e il tasso di successo per ogni pozzo esplorativo è di circa uno su cinque. Poi, per passare dalla scoperta del giacimento alla produzione occorrono in media da cinque a sette anni. Per questo larghe porzioni dell’industria si concentrano onshore su giacimenti non convenzionali per l’estrazione di petrolio e gas da rocce bituminose tramite la tecnica del fracking. Così, mentre l’anno scorso sono stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio e gas pari ad appena 2,8 miliardi di barili equivalenti, le riserve stimate del Nord America si sono accresciute di 190 miliardi di barili equivalenti negli ultimi dieci anni grazie ai progressi tecnologici che hanno permesso di produrre petrolio e gas shale. Un pozzo shale onshore costa in media tra i 4 milioni e i 10 milioni di dollari e può essere portato in produzione nel giro di settimane. Come dice Bob Fryklund di IHS Markit: “Il problema delle nuove riserve viene risolto strappando il petrolio dalle rocce”.

OUTPUT IN AUMENTO NEGLI USA

Daniel Yergin, vice presidente di IHS Markit, ha dichiarato nei giorni scorsi che le aziende che fanno esplorazione negli Stati Uniti molto probabilmente aumenteranno l’output nel 2017; l’incremento potrebbe superare i 500.000 barili al giorno. Questo esito è favorito dal prezzo del greggio intorno ai 50-55 dollari (livello che dovrebbe mantenersi, prevede Yergin, grazie ai tagli della produzione attuati da Opec e Russia), che garantisce la redditività per chi adotta tecnologie di perforazione avanzate e costose.

La previsione di Yergin riflette quanto riportato dalla U.S. Energy Information Administration americana, che per marzo prevede livelli di produzione di shale oil ai livelli più alti da quasi un anno. I prezzi del petrolio sono ancora circa la metà del 2014, ma Yergin nota che i gruppi petroliferi hanno imparato a far valere ogni centesimo: “Un dollaro investito nel 2017 produce 2,5 volte più petrolio di un dollaro investito nel 2014. Per questo penso che anche con prezzi relativamente bassi ci sarà una ripresa: si esplora con maggiore efficienza”.

LA NUOVA CONCORRENZA 

Ma nemmeno sulle esplorazioni convenzionali c’è da essere pessimisti. Secondo gli analisi di Wood Mackenzie, alcuni grandi gruppi, come Statoil in Norvegia, stanno riprendendo l’attività di esplorazione dopo il minimo toccato nel 2015 e nel 2016. E’ vero che le aziende spendono sempre meno per le perforazioni: 100 miliardi di dollari nel 2014, solo 40 miliardi di dollari nel 2016, ha calcolato Wood Mackenzie. L’americana Chevron ha ridotto il budget per le operazioni di ricerca da 3 miliardi di dollari nel 2015 a 1 miliardo nel 2016-17 , mentre ConocoPhillips ha deciso di ritirarsi da qualunque esplorazione in acque profonde. Ma quest’anno Wood Mackenzie si aspetta una modesta ripresa con più di 500 pozzi scavati entro fine 2017 contro 430 nel 2016.

I pozzi programmati da ExxonMobil in Guyana, da Eni in Italia, da Statoil nel Mare di Barents e da Kosmos Energy col partner BP in Mauritania sarebbero i più promettenti. Anche Andrew Latham, head of global exploration research di Wood Mackenzie, pensa che i gruppi petroliferi stiano riuscendo a fare di più con meno: “Se guardiamo a quanto spendono, dobbiamo parlare di atteggiamento molto cauto. Ma se guardiamo a quanto ottengono rispetto a quanto investono, possiamo essere molto più ottimisti”. Anzi, le opportunità di esplorazione sono molto più abbondanti rispetto al capitale disponibile e quindi l’analista di Wood Mackenzie prevede una serrata concorrenza sugli investimenti: “I Paesi che hanno norme fiscali molto severe non attrarranno investimenti, le aziende andranno solo dove conviene: la scelta c’è”.

PIU’ ENERGIA A WALL STREET

A inizio febbraio Bloomberg parlava di rinato ottimismo anche a Wall Street nei confronti dei gruppi dell’energia, soprattutto americani, visto che queste aziende hanno ricevuto un’infusione di 6,64 miliardi di dollari in 13 offerte di acquisto di azioni a gennaio (la cifra rappresenta due terzi circa di quanto infuso nei gruppi dell’energia a livello globale). Gli azionisti credono nella ripresa perché il prezzo del petrolio sembra ormai stabile sopra i 50 dollari al barile e perché le perforazioni sono aumentate e il numero di pozzi in Usa e Canada è raddoppiato da maggio 2016. Chi riceve più investimenti ora sono le società dei servizi, che forniscono l’attrezzatura per fracking, pozzi, e così via alle aziende petrolifere e che a gennaio 2017 hanno raccolto il 22% dell’equity contro il 5% in tutto il 2016.
Ci sarebbero buone prospettive anche per l’attività di consolidamento: secondo Moody’s Investors Service, i prezzi più alti di petrolio e gas favoriranno l’M&A nel corso del 2017, con possibili accordi importanti tra chi fa esplorazione e chi fa produzione per massimizzare i ritorni.

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