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Nella prima mattinata di mercoledì (ora di Washington) il presidente americano Donald Trump ha avviato la sua diplomazia via Twitter con un tweet-storm sul caso Flynn – le dimissioni del Consigliere per la Sicurezza nazionale arrivate dopo che alcuni articoli del Washington Post avevano portato alla luce le sue conversazioni con funzionari russi, a cui prometteva l’abolizione delle sanzioni post-Ucraina in modo illegittimo, perché prima dell’inizio del mandato (il caso ha riaperto la serie di domande e interrogativi sulle connessioni tra Russia e amministrazione Trump).

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La risposta della Casa Bianca, non quella ufficiale (che è stata affidata finora al briefing stampa del portavoce Sean Spicer martedì in serata), ma quella diretta del presidente, verte su due piani che dovrebbero sembrare difensivi ma che in realtà accedono a due dei campi di attacco calcati dal presidente in queste prime tre settimane di mandato e già durante la campagna. Primo, la colpa è dei media che hanno pubblicato tutte queste indiscrezioni, la “Russian-connection” è un “non-sense” (e dunque: perché pubblicarla?) e solo un tentativo di coprire i molti errori fatti dalla campagna perdente di Hillary Clinton (a proposito di cose senza senso: tornare ad attaccare Hillary dopo tre mesi dalla vittoria?). Secondo, quei media hanno pubblicato informazioni illegali perché uscite illegalmente dai dossier riservati dell’intellingece: è questo “il vero scandalo” dice Trump ed è una cosa molto “un-American!” (col punto esclamativo marchio di fabbrica). Ossia: attacca nuovamente i media corrotti che vogliono infangarlo, e colpisce al fianco le agenzie dei servizi segreti, oggetto di bordate già nei mesi passati quando fornivano informazioni sulle inchieste (tutt’ora in corso e anzi sovrapposte alla vicenda di Flynn) a proposito dell’interferenza russa nelle elezioni presidenziali.

CACCIA AGLI SPIONI ALLA CASA BIANCA

I retroscena però continuano e i media americani banchettano. Si racconta di un Trump furioso con i delatori che gravitano intorno all’amministrazione, anche nelle cerchie più ristrette (perché da lì arriverebbero molte delle informazioni). Un altro articolo del Washington Post (che in questo momento deve avere le fonti migliori) racconta che ormai c’è un clima sospettoso che porta allo scontro, diventato ormai il metro comunicativo tra i notabili trumpiani, e tutto è messo ancora più in tensione dalle continue spifferate che escono. Non c’è solo il caso Flynn: informazioni anonime sono fornite costantemente ai media americani su ognuno dei passi del presidente. E pare che Trump abbia ordinato un’indagine interna per capire chi sono gli spioni; cadranno teste, di tricoteuse è piana la platea. Il WaPo racconta che il clima è talmente pessimo che i funzionari hanno iniziato ad usare un’app di messaggistica criptata che si chiama Confide. Perché? Perché i messaggi vengono cancellati appena letti.

DISTOGLIERE LO SGUARDO VERSO IL SOL LEVANTE

C’è poi un terzo ambito. Martedì una presunta agente segreta vietnamita (forse) con indosso una maglia bianca con la scritta “LOL” (per i poco pratici degli acronimi online: sta per “un mucchio di risate”, in inglese) pare abbia avvelenato all’aeroporto di Kuala Lumpur il fratellastro del presidente nordcoreano Kim Jong-un. Si tratta di una notizia importante, una storia da film, ma Washington martedì gli ha riservato un’attenzione ancora più particolare, forzando le informazioni ai giornalisti su possibili ricostruzioni e supposizioni su quanto successo. Pyongyang è uno dei principali interessi per gli Stati Uniti? No, non finora: lo è diventato per due ragioni. La prima, la vicenda dell’assassinio è stata usata per qualche ora per allontanare l’attenzione da quanto stava succedendo intorno a Flynn (ma poi altre indiscrezioni fornite ai giornalisti hanno riempito nuovamente le pagine dei giornali). Secondo, la Corea del Nord è una minaccia nucleare soprattutto per i paesi della regione, e l’America di Trump in questo momento ne ha a cuore uno: il Giappone. Sabato, mentre Trump e il premier Shinzo Abe cenavano dopo una partita a golf nella tenuta da relax presidenziale di Mar-a-Lago, in Florida, lo staff del primo ministro è corso a disturbarlo al tavolo (violando il formalissimo protocollo nipponico) perché Kim aveva sparato un altro missile balistico verso il Giappone (era un test, sia chiaro). Attaccare il regime canaglia nordcoreano ha dunque il doppio effetto di far passare Trump da honest broker davanti alla dote di investimenti americani che Abe gli ha regalato, e di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla crisi dell’amministrazione (un pazzo nemico atomico che minaccia gli Stati Uniti è miele per il suo elettorato, sulla costruzione di questo genere di minacce cupa, da accerchiamento, d’altronde si basa buon parte del consenso sui provvedimento contro quei paesi musulmani inseriti nel più discusso degli ordini esecutivi fin qui emanati). Martedì 14 febbraio è stato il presidente stesso a spiegarlo: in uno dei primi tweet mattutini Trump si lamentava delle fughe di notizie (quelle del caso Flynn nello specifico) che gli toglievano la concentrazione mentre stava affrontando beghe ancor più grandi come, appunto, la Corea del Nord.

 

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