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La corsa verso Industry 4.0 assomiglia un po’ a una gara di Formula 1: chi sta in testa può sfruttare traiettorie e massima visibilità, chi rincorre è obbligato a girare qualche decimo più veloce; e per avere qualche speranza di affiancare e superare il rivale ha bisogno di una strategia di gara aggressiva, un team affiatato, concentrazione e, ovviamente, deve essere disposto a rischiare di più.

Tutte qualità di cui, a giudicare dalle performance fornite negli ultimi anni, il team Italia ha dato scarsa prova. Il Report Technology Forum stilato dallo studio Ambrosetti ci annovera infatti tra gli “innovatori moderati”. Un’altra indagine presentata a fine settembre da Federmeccanica mette in evidenza che su un campione di 527 aziende solo il 64 per cento ha familiarità con Industry 4.0 e utilizza almeno una delle tecnologie abilitanti (internet of things, big data, clouding ecc.). La cosa più preoccupante è che il 50 per cento dichiara che nei prossimi anni non ha intenzione di investire sul versante dell’innovazione, nonostante i dati mostrino che digitalizzazione, formazione e R&S portano a un aumento medio del fatturato del 44 per cento.

I numeri parlano chiaro: tra le imprese italiane vi è una certa allergia al nuovo, una mancanza di consapevolezza dell’importanza della sfida che stride con i proclami ufficiali. Qualcosa di diverso comincia a vedersi nel sindacato, è il caso della Fim Cisl. Da tempo la rilevanza del tema è stata segnalata dal suo segretario Marco Bentivogli, che già due anni fa, senza preoccuparsi troppo di chi lo bollava come futurologo, in un saggio uscito per Adapt Univesity Press (“#SindacatoFuturo in Industry 4.0”), scriveva che Industry 4.0 rappresenta “l’ultima occasione per rimettere al centro la manifattura”, un obiettivo che può essere centrato solo da una classe dirigente illuminata, lungimirante e in grado di varare politiche industriali, sociali e formative in qualche modo coordinate tra loro.

Va detto che il piano presentato dal governo il 21 settembre scorso sembra andare in questa direzione. A cominciare dallo sforzo finanziario, ingente nonostante le ristrettezze di bilancio. L’esecutivo punta infatti a mobilitare circa 13 miliardi di euro di investimenti pubblici in innovazione e incentivi fiscali ( superammortamento, iperammortamento, nuova Sabatini) per i prossimi 7 anni, un’ulteriore dote di 10 miliardi di euro per quelle che nel piano sono indicate come “direttrici di accompagnamento” ovvero: salario produttività (1.3 miliardi nel quadriennio 2017-20), diffusione della banda ultralarga tra le imprese (6.7 miliardi già stanziati) rifinanziamento del Fondo garanzia per le pmi ( 900 milioni ), catene digitali e internazionalizzazione del made in Italy (100 milioni ), un contratto di sviluppo con focus su industria 4.0 (1 miliardo). Un capitolo a sé viene dedicato poi alla ricerca, con la costituzione di innovation hub e competence center inseriti in una struttura “a rete” che mira a valorizzare le eccellenze del nostro sistema universitario.

L’impianto del piano è stato sostanzialmente promosso da tutti i principali attori, che peraltro il governo ha voluto coinvolgere nella “cabina di regia” che speriamo non sia solo un organismo di facciata, che si riunirà uno o due volte all’anno per monitorarne l’andamento e suggerire eventuali correzioni. A parte la gaffe nella brochure consegnata durante la presentazione (“L’Italia offre un livello di salari competitivo che cresce meno rispetto al resto dell’Unione europea e una forza lavoro altamente qualificata”: su questo francamente non si capisce cosa vi sia da vantarsi) il piano ha trovato un consenso unanime.

Ora si tratta di capire se questa accelerazione – giunta dopo un lungo periodo di incertezza – ci consentirà di recuperare il ritardo accumulato nei confronti di Stati Uniti, Germania, Francia e soprattutto Cina, il gigante asiatico che con i tedeschi ha avviato un piano di collaborazione proprio su Industry 4.0 (“Made in China 2025”).
Se l’Italia vuole mantenere la seconda piazza tra le potenze industriali europee, è dunque evidente che deve puntare le sue carte sul sistema formativo e quella parte del tessuto imprenditoriale che in questi anni ha fatto dell’innovazione tecnologica e organizzativa il suo punto di forza. Lo spazio c’è, ma serve una visione. Una visione in grado di far maturare il Paese sotto il profilo sia politico che culturale, di metterlo nelle condizioni di “fare sistema”, magari prendendo a modello quanto di buono hanno realizzato altri paesi (l’esempio è la Germania) in questo campo, ma seguendo una propria strada.
In caso contrario il rischio è che le risorse che il governo si appresta a stanziare con la Legge di stabilità vadano fuori bersaglio. Così avverrebbe se a ricevere gli incentivi fossero solo investimenti nell’automazione delle linee di produzione o nell’acquisto di macchine a controllo numerico: miglioramenti utili, senz’altro, ma di per sé non decisivi ai fini dell’implementazione di un modello di Industria 4.0. Modello che non può essere confuso con la semplice automazione o con il crescente impiego della robotica.

In un recente focus del dipartimento Industria della Cisl, coordinato dal segretario confederale Giuseppe Farina, Bentivogli ha osservato infatti che la novità della quarta rivoluzione industriale non consiste nella sola automazione, del resto già oggi presente in molte aziende, ma nel “mettere tra loro in dialogo le tecnologie abilitanti per realizzare la smart factory” con sistemi intelligenti d’interconnessione. Cosa non impossibile a patto di creare intorno alle nostre fabbriche “un ecosistema 4.0” basato su “smart city, mobilità, smart greed”. Un ambiente nel quale pure la rappresentanza si trasforma, dando più spazio alla contrattazione decentrata senza per questo rinunciare al contratto nazionale “che resta la cornice”. La crescita delle competenze renderà giocoforza i lavoratori “più coinvolti e consapevoli”, il che, secondo Bentivogli, rappresenta “una sfida ma anche una grande occasione di partecipazione”.

Il quadro disegnato di Bentivogli non si allontana da quello tratteggiato sulle colonne di Avvenire da Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi, secondo cui “la sfida si gioca sulla combinazione di investimenti nella tecnologia e in competenze e dunque su una nuova centralità della persona nei processi produttivi”. Contro una visione riduttivamente materialistica dell’economia e del lavoro, contro il prevalere della “quantità” che ha segnato il modello fordista, i due studiosi mettono l’accento sulla “qualità” e collegano la rivoluzione industriale che si affaccia sul nostro mondo alla necessità di un nuovo umanesimo.
Se la prima età delle macchine ha permesso di scatenare le forze dell’energia intrappolata nei legami chimici per ristrutturare il mondo fisico, la promessa della seconda età delle macchine è che contribuirà a scatenare il potere dell’ingegno umano.

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