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Strana vicenda davvero quella di Zygmunt Bauman, il sociologo e filosofo inglese di origine ebraico-polacca morto ieri a Leeds, la città ove viveva e nella cui università aveva insegnato negli anni compresi fra il 1971 e il 1990 (era nato a Poznan, il 19 novembre 1925).

Strana la sua vicenda, umana e intellettuale, perché la sua vita era cambiata radicalmente negli ultimi anni, diciamo dopo la pensione. Bauman era diventato infatti in Italia una vera e propria star del pensiero: corteggiatissimo e invitato a ogni sorta di convegno o festival, trascinava la sua vecchia e austera figura per le piazze e le città del Bel paese, soprattutto nella stagione estiva.

Era una fama che non trovava riscontri in altri Paesi, né l’aveva trovata in altri periodi della sua vita. Non che, beninteso, i suoi studi non fossero conosciuti e anche apprezzati, ma rimanevano chiusi nel ristretto cerchio degli specialisti o comunque non avevano il successo editoriale che a partire da un certo momento gli ha arriso. Sollecitato da ogni dove e da chiunque, dal suo editore Laterza, Bauman non si sottraeva. Viveva, da ultimo, come una seconda giovinezza, riformulando le sue idee in ogni salsa possibile, acclamatissimo tuttologo di chi, perse antiche fedi, cercava nella cultura, mai pienamente vissuta e interiorizzata, sicurezze o rassicurazioni a buon mercato.

Bauman forse si divertiva o non si prendeva troppo sul serio, ma comunque quelle certezze al suo vasto pubblico riusciva a darle. Soprattutto perché forse aveva trovato una sorta di “formula magica” per descrivere il nostro tempo e la nostra realtà: quello che altri avevano chiamato, per intenderci, la post modernità. Le nostre, diceva, sono “società liquide”, società in cui cioè è scomparsa ogni certezza o punto di riferimento. Non ci sono più Dio, Patria e famiglia, almeno non nella loro accezione tradizionale, ma non ci sono più nemmeno ruoli, gerarchie, funzioni rigidamente prestabilite o date. Ciò, che tutto sommato è un bene, diventava però, agli occhi di Bauman, un male nella misura in cui significava angoscia, solitudine, impossibilità di dare un senso e un fine alla propria vita.

Nel mondo liquido, l’uomo, per Bauman, è solo, o meglio alla mercé del grande capitale, dei mercati, del consumismo e delle multinazionali. A ben vedere, in tanta liquidità un elemento rimaneva per lui ben fisso e si sottraeva al divenire pur nella sua indecifrabile vaghezza: era quel capitalismo e quell’idea di sviluppo che sempre è stata la bestia nera dell’intellettuale medio. E che lo era anche di Bauman, per quanto egli indubbiamente si stagliasse dalla mediocrità. Egli, fra l’altro, fin dalla giovinezza era stato comunista ed era andato via dalla Polonia, alla fine degli anni Sessanta, sì per motivi politici, ma tutti legati all’antisemitismo e non all’autoritarismo della classe politica al potere.

Cosa pensasse della globalizzazione economica, cioè dell’aspetto trainante della postmodernità “liquida”, Bauman ce lo ha detto in tutte le salse, ad esempio ne Il demone della paura: “Nella sua forma attuale, permanentemente negativa, la globalizzazione è un processo parassitario e predatorio, che si nutre della forza succhiata dai corpi degli Stati-nazione e dei loro sudditi”. Che è tesi comunista sì, ma non marxista, come ci ha ricordato più volte un altro sociologo della modernità: quel Luciano Pellicani sempre critico acuto delle tesi dello studioso morto ieri. Marx voleva sì una impossibile e illiberale “società di eguali”, ma la voleva nella ricchezza non nella povertà; era, cioè, un teorico del superamento del capitalismo, ma niente affatto un suo demonizzatore come lo è stato Bauman. Il quale si è perciò sempre più avvicinato a certe tesi di stampo francofortesi, insistendo sulla mercificazione delle nostre società e, in esse, dell’uomo stesso come soggetto “alienato” e “omologato”( cfr. Vite di scarto, Dentro la globalizzazione, Homo consumens, tutti editi a più riprese da Laterza negli ultimi anni).

In sostanza, egli ha, anche in questo senso, elaborato una filosofia che si prestava a soddisfare le richieste di senso degli orfani delle grandi “agenzie etiche” del passato (dalla Chiesa al Partito, per intenderci). Bauman, con un pensiero così atteggiato, non poteva non essere che quello che effettivamente è stato, la voce dell’Intellettuale Collettivo, quel tipo di intellettuale che nell’Italia, orfana di “impegno” e “organicità” ma nostalgico del passato, continua a essere il modello trionfante dell’uomo di cultura.

Detto questo, con il rispetto che si deve ai morti e anche alla verità, non può non si può non ricordare, in questa sede, che c’è anche un altro Bauman: quello concentrato sui suoi studi e sulle sue opere del periodo precedente. Opere di impianto marxista, le sue, più o meno ortodosse, più o meno discutibili, ma sempre rigorose e interessanti. Penso ai suoi studi sul socialismo britannico, su cui aveva preparato nel 1959 una dissertazione dopo un periodo passato alla London School of Economics di Londra; o a quello sui rapporti fra la modernità e il totalitarismo nazista (Modernità e Olocausto, 1992). Di grande respiro è anche la sua opera sul ruolo degli intellettuali, e sul loro rapporto con il potere, negli ultimi tre secoli. Il libro, del 1987, è uscito nel 2007 in Italia col titolo La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti. È un titolo non fedele, ma significativo: Bauman pensa infatti che anche oggi i filosofi dovrebbero essere un po” come i re-filosofi di Platone, o almeno come i philosophes del’Illuminismo francese. E perciò egli parla di “decadenza”. Dovrebbero, in altri termini, non capire il mondo ma cambiarlo, come voleva la XI tesi su Feuerbach di Marx. Che poi essi, tutte le volte che ci hanno provato, hanno sempre creato un bel po’ di guai, era elemento che Bauman non considerava. Ma tant’è!

Restano le acute analisi e le osservazioni che, col segno cambiato, può far proprie anche chi la pensa diversamente. Bauman comunque ci mancherà, se non per altro perché, provocandoci, ci aiutava a chiarire anche le nostre idee, pur molto diverse dalle sue.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Il Dubbio diretto da Piero Sansonetti del 10 gennaio 2017)

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