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L’analisi di Flavio Felice, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università del Molise, pubblicata nell’ambito della storia di copertina del numero di dicembre della rivista Formiche, dedicata al cinquecentenario della Riforma protestante e alla scelta ecumenica di Papa Francesco

La celebrazione dei cinquecento anni della Riforma di Lutero, che ha visto il Papa a Lund, accanto ai fratelli separati, produrrà effetti anche dal punto di vista dell’elaborazione del pensiero economico? La domanda è legittima, se si considera la vulgata post weberiana in materia di rapporti tra agire economico e matrice religiosa e di come tale vulgata, dalla quale avrebbe preso le distanze lo stesso Weber, ancor oggi faccia protendere alcuni commentatori verso uno dei più logori luoghi comuni che vorrebbe il capitalismo – individualista e liberista – figlio di una qualche etica protestante (calvinista), mentre un non definibile anti-capitalismo (forse il corporativismo?) – comunitarista, organicista e solidarista – prodotto dell’etica cattolica.

C’è stato come un tema ricorrente negli interventi e nelle valutazioni del santo padre, e cioè che siano stati fattori politici e sociali (con le loro implicazioni economiche) a determinare il cristallizzarsi di una crisi altrimenti destinata a rimanere nell’alveo religioso. Possiamo soltanto richiamare alcune di queste implicazioni e auspicare che la data anniversaria serva a far procedere l’unità dei cristiani e dunque il loro servizio alla pace nel/del mondo.

Innanzitutto una diversa valutazione del rapporto fede-politica. È noto – ed è stata richiamata in un certo senso anche dal papa – che la luterana distinzione dei due regni (mano destra del regno spirituale, mano sinistra di quello temporale) era di fatto servita ad affrancare i principi tedeschi dalla loro soggezione all’imperatore, la cui autorità era legittimata dal papato. È questo un tema centrale della storia delle dottrine politiche che contraddistingue il cosiddetto problema teologico dell’Europa, dalla caduta dell’Impero romano fino alla nascita dello Stato-nazione, un avvento che vede proprio nella fine dell’unità cristiana un avvenimento decisivo. La secolarizzazione del potere politico, così guadagnata, è alla base di molte scissioni tipiche della modernità, a loro volta sostenute da antropologie di stampo pessimista: l’uomo tenderebbe verso il male, ma sarebbe occasionalmente capace di bene. A questo punto, per rendere più utile e interessante il dialogo, una prima questione che andrebbe ripresa è proprio quella della fondazione del potere e della relazione tra chiesa e società, tra ruolo pubblico della religione e concezione poliarchica della società, in forza della quale non spetterebbe alla politica il primato, ovvero il monopolio, sul bene comune, in quanto a essa spetterebbe, più modestamente, la competenza in merito all’ordine pubblico e alla pace (si considerino le opere di Luigi Sturzo e di John Curtney Murray, quest’ultimo estensore principale della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae). Il costante riferimento del papa alla Dottrina sociale della Chiesa mette in campo la correlativa relazione tra fede e prassi politica, tra fede creduta e fede vissuta anche nei campi propri della vita sociale, che necessitano di rimanere plurali, senza alcun ricorso al vertice sintetico rappresentato dallo Stato. Affrontare questo tema creerebbe le condizioni per un servizio al mondo meglio cristianamente inteso e con maggiori anticorpi contro totalitarismi e populismi: káisar non è kyrios.

In secondo luogo, il valore della prassi caritativa e sociale. Il papa ha ricordato come un’unione sia possibile fin d’ora a partire da una comune prassi di carità, che porti cattolici e luterani a incontrare Cristo nei poveri. È chiaro che un tale servizio ai poveri inizi con l’assistenza e il soccorso, ma non potrà non estendersi al contrasto delle cause della povertà e all’offerta di vie di sviluppo e di relativo benessere. È nota la sensibilità di papa Begoglio verso il tema economico affrontato dal punto di vista dei poveri e delle periferie. Si tratta di un campo che prefigura sinergie nuove tra mondi economici, finanziari e politici finora distanti tra loro e che possono così essere incoraggiati a sviluppare impresa, commercio e servizi, senza che questo sia compiuto in prospettiva di concorrenza o di antagonismo, ma nella comune convergenza al bene e allo sviluppo di realtà povere; i riferimenti teorici restano la Centesimus annus e la Caritas in veritate.

In terzo luogo, una rilettura riconciliata del passato, libera da vulgate e luoghi comuni, da posizioni, sistemi di idee e modelli di sviluppo che si sono affermati in chiave polemica lungo questi secoli, a scapito spesso della libertà. Ad esempio, la presunzione della superiorità morale propria dell’Europa settentrionale, il supposto lassismo di quella meridionale, le presunte e sbandierate, ma indecifrabili, differenti concezioni antropologiche, quelle legate all’idea di progresso o di sviluppo, portano in sé condizionamenti dovuti a polarizzazioni teologiche che hanno certamente bisogno di essere riprese, a partire, tra l’altro, dalla prospettiva di autori quali Antonio Rosmini, Luigi Sturzo e Luigi Einaudi sul lato cattolico e Wilhelm Röpke e i teorici dell’ortoliberalismo e dell’economia sociale di mercato sul versante del luteranesimo.

Credo che questa possa essere una chiave anche per comprendere criticamente l’analisi di Weber, il cui merito è indubbio: la tesi weberiana ha rappresentato uno stimolo a riflettere sul rapporto tra valori, cultura e modernità, superando la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura. Tuttavia, la vulgata che ne è sorta si è rivelata fuorviante ai fini della spiegazione di come sia realmente emerso lo spirito del capitalismo. Cosa ancor più grave, essa è divenuta un alibi al quale intellettuali e politici spesso hanno fatto ricorso per pigrizia, ovvero per opportunismo. Sembra che non vogliano aggredire i problemi sul fronte della qualità e del merito della nostra classe dirigente e della forma e della tenuta delle nostre istituzioni, nonché del ricambio della prima e della continua e necessaria riforma delle seconde: la risposta che uomini saggi e intellettualmente onesti danno, una volta preso atto della loro ignoranza e della loro fallibilità. Esattamente ciò che seppero fare insieme cattolici e protestanti in Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale.

@flaviofelice

L’unione dei cristiani al servizio della pace

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