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La campagna contro l’olio di palma, sia da un punto di vista politico sia da quello mediatico si rivela un esemplare caso studio. Con i suoi toni allarmistici e sensazionalistici rivela molto delle odierne ramificazioni della comunicazione basata sul sentimento e meno sull’oggettività dei fatti. Per tutti questi anni infatti è riuscita a nascondere egregiamente una vera e propria guerra degli olii che si sta combattendo a colpi di lobby.

Una comparazione storica di quello che oggi sta succedendo in Italia contro questo olio vegetale si può fare con quanto si verificò negli Stati Uniti negli anni’80. All’epoca l’American Soybean Association, ossia l’associazione dei grandi produttori americani di olio di soia, lanciò una scomunica a suon di protezionismo contro gli olii invasori provenienti dai paesi asiatici. Le motivazioni addotte: provoca obesità e fa male alla circolazione. Non è difficile comprendere come la motivazione reale fosse proteggere le grandi compagnie americane a scapito della libera circolazione delle merci. Venne firmata una petizione all’U.S. Food and Drug Agency per chiedere la messa al bando del prodotto tramite etichette ad hoc da applicare ai prodotti americani, guarda caso a base di soia, con la dicitura “palm oil free”. Ossia “noi siamo i più sicuri, i più sani. Tutti gli altri no”. Questa campagna provocò una vera guerra degli olii tra nazioni diverse che non portò alcun beneficio reale alla sua fautrice, l’ASA, né al commercio americano.

Oggi come allora lo schema non è cambiato. Da una parte infatti si trovano alcune associazioni che, nel nome della difesa del bene comune e delle aziende italiane, cercano di portare acqua al proprio mulino. Dall’altra i cosiddetti “invasori” ossia olii provenienti da altre nazioni che vengono consumati perché migliori da un punto di vista tecnico per i prodotti industriali e meno costosi perché hanno maggiori rese per ettaro dunque produzioni più redditizie. La comunicazione allo stesso modo non è mutata se non nei mezzi a disposizione. I temi sono sempre la salute: l’olio di palma fa male, i nostri olii no; e l’ambiente: l’olio di palma non è sostenibile, gli altri sì.

I fatti smentiscono in buona parte le accuse. E soprattutto non rivelano il vero retroscena della campagna. Con cosa infatti si andrà a sostituire il tanto vituperato olio di palma? Con altri grassi e olii vegetali. Ma siamo sicuri che sia più sano e, soprattutto, che faccia il bene delle aziende italiane?

Come diversi studiosi e ricercatori nessun olio vegetale è considerabile migliore degli altri e l’olio di palma non deve essere demonizzato. Il problema è la lavorazione industriale degli olii e l’esagerazione da parte del consumatore. Inoltre sostituirlo con altri olii non è garanzia di introiti per gli agricoltori italiani. Prendendo l’esempio dell’olio di semi di girasole la maggior parte di quello utilizzato in Italia, il 70%, proviene da altre nazioni: Russia, Ucraina e Turchia. L’Italia copre poco più del 10% del suo fabbisogno e non possiede spazi agricoli adatti per questo tipo di coltura.

Ecco allora che emerge l’importanza della strategia di comunicazione. Panico e allarmismo semplicemente funzionano grazie all’utilizzo di immagini e parole forti. In grado di condizionare immediatamente il lettore e coinvolgere direttamente la sua sfera emotiva. Esporre oggettivamente i fatti e motivarli al contrario sembra non funzionare. Non ha presa perché è slegato dalle emozioni e non trova alcun supporto dai nuovi media dove infatti la scienza e la ragione stanno facendo fatica ad emergere e affermarsi.
La guerra degli olii dunque rimarrà sepolta sotto il peso della comunicazione emozionale. Come altre migliaia di guerre fra lobby.
È la comunicazione, bellezza, e non è detto coincida con la verità.

Comunicazione e olio, storia di una guerra nascosta

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