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Il dibattito sul referendum di dicembre è nel vivo, anche se ancora non è entrato nella fase clou. Il dibattito interno al Pd e le diverse anime che in Forza Italia si dipanano, divise tra Parisi e Toti, creano una condizione di posizionamento in vista della grande battaglia.

Due dati sono molto importanti, segnatamente in relazione alla diatriba interna al Pd. La contrapposizione che divide il Sì e il No non è esattamente sovrapponibile a quella tra riformatori e conservatori.

Vi è compatto, da un lato, il fronte renziano che per scontate ragioni difende apertamente l’impianto della riforma e in modo prudente l’Italicum; vi è un articolato e diversificato niet che va dalla sinistra conservatrice fino al movimentismo grillino e oltre.

Per fare chiarezza soprattutto sul fronte di opposizione bisogna entrare nel merito della riforma, e comprendere se e in che misura sia una vera o presunta riforma.

Nella querelle tra Cuperlo, Bersani e Speranza contro Renzi e Boschi si muove una critica che naviga sull’intero valore e ruolo costituzionale dei poteri dello Stato. Renzi vuole rendere più forte e meno eterogeneo parlamento e governo, gli oppositori vogliono che sia salvaguardato il nocciolo costituzionale vigente che si articola sul carattere pluralista e non monocratico della maggioranza.

Il punto in comune è chiaro almeno tanto quanto la divergenza che sembra rievocare la contrapposizione nella Dc degli anni ’60 tra fanfaniani e dorotei: chi a favore della leadership unica, chi a favore del condominio.

Il fronte del No, tuttavia, non si esaurisce in questa dicotomia tra la sinistra tradizionale e il sinistrismo renziano, tutto accentratore sui profili dello Stato.

Il fronte del M5S è quello del centrodestra, in modo diverso, non contestano infatti da posizioni conservatrici la razionalizzazione univocista del Governo, bensì aggrediscono la riforma su una base democratica, rinvenendo in essa una sorta di controriforma, tesa a rendere più stabile lo Stato e non più influente il popolo sovrano.

Alla finta riforma di palazzo, si propone una vera riforma democratica che aumenti il peso elettorale dei cittadini anziché diminuirlo, come accade con un Senato non più elettivo.

Se la formula è ”meno Stato e più democrazia”, questa di Renzi non è una riforma perché rende più efficiente il potere di chi comanda ma non più governante il popolo sovrano.

Il punto non è insomma cambiare forma di governo, riducendo lo spazio plurimo di accesso al potere, ma quello di trasformare una sovranità della costituzione in una vera sovranità popolare.

Nel No ci sono, dunque, sia conservatorismi sclerotizzati e sia la percezione di una riforma che non riforma ma deforma la costituzione non aumentando il tasso netto di democrazia.

La critica al sinistrismo renziano, mosso da un mal di pancia della sinistra, può essere condiviso anche da chi, al contrario di Zagrebelsky, la costituzione vorrebbe veramente cambiarla come propongono, in modo opposto, centrodestra e M5S.

Luigi Sturzo, certo non una figura che possa ispirare Cuperlo e compagni, sembra parlare della riforma Renzi quando osserva: ”Il difetto attuale italiano proviene dal sinistrismo, che diffuso nel paese crea l’aspettativa della riforma incantatrice, della rivoluzione a colpi di leggi, della prosperità repentina senza sacrifici; trasformando il sinistrismo politico in sinistrismo economico”.

Logico è che solo un coinvolgimento veramente popolare, ad esempio con un’assemblea costituente, può operare non una restaurazione ma una modifica reale del nostro Stato legalista in una vera democrazia governante.

Referendum, il Sì renziano e le complesse ragioni del No

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