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Il lungo intervento di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, non può passare sotto silenzio. Le raccomandazioni dispensate a piene mani con l’obiettivo trasparente di tirare le orecchie al Governo italiano – “l’avvertimento  di Weidmann a Renzi”: titolava Il Corriere della sera – sarebbero risultate più credibili se accompagnate da un minimo di riflessione autocritica. Indispensabile per dimostrare la necessità di mantenere quel nesso “solidarietà finanziaria e responsabilità” che rappresenta il cardine di una “moneta senza Stato”. Del resto perché, come ha fatto, fermarsi a Tommaso Padoa-Schioppa? Bastava andare solo qualche anno indietro. Ricordare, ad esempio, per quali ragioni lo Sme – il sistema monetario europeo – entrò in crisi, circa un quarto di secolo fa. E vedere in controluce il rischio, soprattutto da parte tedesca, del perseverare diabolicamente in uno stesso identico errore.

Gli anni di cui stiamo parlando sono quelli del 1992 e del ’93. Gli anni della grande crisi valutaria. Ma anche gli anni che determinarono la distruzione della Prima Repubblica, in Italia, e l’avvio di quella transizione infinita, che ancora perdura. Quegli assetti politici crollarono con la svalutazione della lira, che rese plasticamente evidente i limiti di una vecchia classe dirigente, ormai screditata dal susseguirsi degli scandali e dall’emersione di quel malaffare che segnò il trionfo di “mani pulite”. Oggi rievocato, con forza – altro segno inquietante – dalla dura presa di posizione di Piercamillo Davigo.

Il popolo italiano reagì allora stoicamente. Assunse solo su di sé la responsabilità di presunti misfatti, dimenticando le ragioni di carattere internazionale che furono a monte di quelle vicende. La stampa, per conto suo, troppo occupata a guardare l’ombelico nazionale, non si pose il problema di un sussulto patriottico nella denuncia delle responsabilità altrui. La semplificazione si trasformò così in vera e propria disinformazione. Al punto che gli altri attori, pure coinvolti nella vicenda, furono assolti e mondati di ogni possibile colpa. Per l’Inghilterra, ad esempio, costretta essa stessa a svalutare pesantemente la sterlina, le colpe furono attribuite alla grande speculazione internazionale. George Soros, il finanziere ungherese nazionalizzato statunitense, quel mercoledì nero – il 16 settembre del 1992 – entrò nel guinness dei primati come “l’uomo che gettò sul lastrico la Banca d’Inghilterra”. La grande colpa fu quella di aver puntato sull’imminente svalutazione della moneta di Sua Maestà, senza per altro determinarla, guadagnando dall’operazione più di un miliardo di dollari.

Da un lato le cicale italiane, dall’altro le mani sporche di speculatori senza scrupoli: questa fu l’immagine che ancora oggi ci portiamo dietro, dopo aver occultato le vere responsabilità di chi non ha mai pagato pegno. E quell’oblio non poteva che essere foriero di una totale impunità. A sua volta destinata ad alimentare nuovi e ripetuti sermoni, contro presunti peccatori. Nonché il permanere di comportamenti devianti, da parte dell’intero establishment tedesco, che rappresentano il rischio prospettico maggiore.A chi dimostra di essere colpito da amnesia, va ricordato che la crisi dello SME fu soprattutto conseguenza delle modalità scelte per giungere, il 3 ottobre del 1990, alla riunificazione tedesca all’indomani della caduta del muro di Berlino.

Il primo problema che, allora, si pose fu quello del finanziamento. L’incorporazione dei land dell’Est aprì, immediatamente, un drammatico capitolo finanziario. Le differenze tra l’Est e l’Ovest erano troppe profonde. Da un lato un’economia più che sviluppata, già allora in grado di essere la roccaforte industriale dell’intera Comunità europea. Dall’altro vecchie fabbriche cresciute pigramente sotto il regime comunista. Fiore all’occhiello del Comecon, il vecchio blocco che dipendeva da Mosca, ma del tutto impossibilitato a competere con la tecnologia occidentale. Debolezza quest’ultima che si rifletteva sul valore delle due distinte monete: prima dell’unificazione il valore di cambio oscillava, al mercato nero, all’interno di una forchetta compresa tra 5 e 10. Ci voleva, in altre parole, cinque o dieci volte tanto per acquistare un marco della Germania federale, da spendere presso i negozi riservati agli stranieri o alla nomenclatura del regime. Differenze che sparirono d’incanto. Il cambio fu, infatti, fissato con la formula “one to one”. Un marco occidentale per uno orientale, con la motivazione, tutta politica, che non si potevano creare cittadini di prima e seconda categoria.

Intento nobile: se la nuova Germania avesse avuto le risorse proprie per finanziare una simile operazione. Si trattava, infatti, di trasferire potere d’acquisto a favore di soggetti che non potevano garantire la loro solvibilità. I relativi costi furono, pertanto, direttamente assunti dallo Stato federale, costretto a creare moneta per venire incontro alle esigenze dei nuovi cittadini. Ne derivò una forte dilatazione del deficit di bilancio, la cui prima conseguenza fu l’insorgere dell’inflazione: bestia nera di un’antica tradizione. Inflazione che si trasmise immediatamente sugli equilibri della bilancia dei pagamenti dando origine ad un doppio deficit: quello della finanza pubblica e della bilancia commerciale. Per limitare i danni, la Bundesbank non esitò un momento ad alzare i propri tassi d’interesse. Dovevano contribuire, da un lato a mitigare le pressioni inflazionistiche, dall’altro ad attirare finanziamenti internazionali, per coprire il buco.

Quelle scelte ebbero conseguenze drammatiche sul resto dell’Europa. Già allora la Bundesbank era il pivot del sistema finanziario europeo, in grado di influenzare, con le proprie politiche, quelle delle altre banche centrali. La Banca d’Italia, ad esempio, guardava ai tassi tedeschi per calibrare la propria politica monetaria. Il suo obiettivo era sostenere il cambio della lira, attirando capitali stranieri, per ridurre il peso dell’inflazione importata. Operazione possibile solo con l’ingresso di capitali stranieri attirati da un maggior rendimento prospettico: tassi di interesse reali identici a quelli tedeschi più uno spread commisurato all’entità dell’eventuale rischio. Schema seguito, seppure in misura minore dalle altre banche centrali: dalla Spagna, al Portogallo, alla stessa Inghilterra (che aveva il problema opposto di contenere l’eventuale fuga di capitali) per lambire le stesse Istituzioni dei Paesi scandinavi. Il rialzo improvviso dei tassi di interesse tedeschi sconvolsero questo equilibrio, determinando il caos.

Alle prime avvisaglie della crisi, si cercò sul piano internazionale di coordinare le possibili misure. Gli incontri non furono limitati ai soli Paesi europei. Gli stessi Stati Uniti cercarono di esercitare la loro influenza, invitando più volte il Governo tedesco a mitigare la sua politica monetaria. Ma fu tutto inutile. In molte riunioni tecniche l’atteggiamento tedesco rasentò lo sgarbo diplomatico, come quando la delegazione di quel Paese minacciò di lasciare la seduta se si fosse ancora insistito sul tema del contenimento dei tassi. Per giungere, infine, all’inevitabile. Sebbene da tempo previsto. La conseguenza fu fu la morte dello Sme, accompagnato da un susseguirsi di svalutazioni monetarie.  Si salvò solo la Francia, che non fu costretta a seguire l’esempio inglese o italiano – questione di prestigio internazionale – solo grazie alla particolare benevolenza tedesca. Ed ai conseguenti aiuti in vista di quell'”asse” che da allora avrebbe ancor più caratterizzato la realtà politica europea.

A pagare non furono solo gli Italiani. Nel vortice furono coinvolti tutti. Lo Sme fu azzerato. E per diversi mesi l’obiettivo di una moneta comune si trasformò in un sogno ad occhi aperti. I relativi negoziati ripresero, infatti, solo dopo lunghi mesi di turbolenze finanziarie. Se l’euro, come lo Sme, dovesse implodere, nonostante gli sforzi disperati di Mario Draghi – “Whatever it takes to save the euro” – le responsabilità principali, ancora una volta, non sarebbero dei greci o degli italiani. Ma nuovamente a Berlino bisognerebbe guardare.

Ecco tutto quello che Weidmann ha evitato di dire

Il lungo intervento di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, non può passare sotto silenzio. Le raccomandazioni dispensate a piene mani con l'obiettivo trasparente di tirare le orecchie al Governo italiano - "l'avvertimento  di Weidmann a Renzi": titolava Il Corriere della sera - sarebbero risultate più credibili se accompagnate da un minimo di riflessione autocritica. Indispensabile per dimostrare la necessità di…

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