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L’esecuzione di una spia a Raqqa (Foto via @AAhronheim)

In un video diffuso tre giorni fa, lo Stato islamico ha mostrato la nuova, macabra moda per eliminare le spie: vengono crocifisse e poi uccise con un colpo sotto al mento, il tutto ripreso da una telecamera montata sulla canna del kalashnikov da cui parte la fucilazione. Lo fanno perché così chi guarda quelle immagini vede la paura e l’orrore nel volto di chi muore in quanto traditore, il fine è la deterrenza. Le strade di Raqqa, la capitale siriana del Califfato, sono coperte da teli stesi da parte a parte: servono ad impedire ai droni americani che battono l’area di individuare i movimenti dei leader.

LA STRATEGIA DELLA DECAPITAZIONE 

I capi dello Stato islamico sono nervosissimi: per un’organizzazione che ha una rapporto paranoico con la sicurezza, vedersi uccisi via via comandanti anche di primissimo piano nel giro di pochi mesi è uno scotto insopportabile. Anche se la tecnica della decapitazione della catena di comando, sostengono esperti delle dinamiche jihadiste, potrebbe anche non funzionare; Daniele Raineri sul Foglio scrive che “non è la soluzione definitiva perché i gruppi del jihad hanno la capacità di rigenerare la propria classe dirigente, come dimostra la storia dello Stato islamico, che è arrivato al suo terzo leader (dopo Abu Musab al Zarqawi, ucciso nel 2006, e Abu Omar al Baghdadi ucciso nel 2010)”.

QUARANTA LEADER UCCISI: CI SONO DEGLI INFILTRATI

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I teli oscuranti a Raqqa (Foto via @Raqqa_SL)

Fatto sta che gli Stati Uniti hanno aperto da inizio anno una stagione di caccia grossa, che ha come obiettivo ultimo Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo, e tra i trofei porta anche alcune figure centrali della qaedista Jabhat al Nusra. Secondo il sito Daily Beast, che ha raccolto informazioni tra i funzionari della Difesa americana, sarebbero circa 40 gli esponenti di alto livello dello Stato islamico eliminati dall’inizio della guerra: più o meno la metà della “killing list” americana, la cui progressione è aumentata negli ultimi mesi. Tanto che ormai si concorda nel dire che non è più soltanto una questione di ore ed ore di osservazione di immagini satellitari e riprese degli Uav, ma è molto probabile che lo Stato islamico abbia qualche informatore che, collaborando con gli agenti dei servizi segreti sul terreno (forse non solo americani, ma anche quelli degli alleati sauditi, turchi e giordani), passa velocemente le informazioni necessarie per tracciare lo spostamento degli elementi di spicco. Un esempio: qualche mese è stato ucciso Mohammed Emwazi, aka Jihadi John, personaggio dall’alto valore mediatico (era il boia, inglese, delle video/esecuzioni degli occidentali), anche se non un quadro dirigente. Emwazi è stato centrato da un Predator americano mentre usciva da un ufficio di Raqqa, appena risalito in macchina; il missile Hellfire che lo ha centrato non ha prodotto danni collaterali, pur colpendo al centro di un abitato. Sarà stato sicuramente osservato dal drone americano, ma dev’esserci stato qualcuno che ha fornito tempi e luoghi dello spostamento.

CALA IL FLUSSO DI FOREIGN FIGHTERS 

Per questo giornalmente gli account del Califfato pubblicano immagini di esecuzioni di traditori, informatori, spie. Il sistema chiuso che avvolgeva i capi dell’IS comincia ad avere qualche falla, e questo coincide con un periodo di debolezza generale dello Stato islamico; una conferma indiretta per le teorie che ritengono il Califfato attrattivo perché avvolto da una alone di invincibilità. L’esempio, calano i foreign figthers: il flusso, da circa mille persone al mese dello scorso anno, s’è ridotto più o meno a 200. Ormai, come i movimenti dei capi, certe rotte sono tracciate fin dalla partenza: la prova, i sei sospetti arrestati in Italia nei giorni passati, presi ancora prima di progettare la partenza definitiva, mentre il fixers dalla Siria li invitava a restare nella Penisola e farsi esplodere qui.

 

RINFORZI E SNELLIMENTO DELLA BUROCRAZIA

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Un B-52 americano in azione

Il contrasto alle linee di rifornimento globale, forse rese anche un po’ meno appetibili dalla degradazione del fascino imbattibile del Califfo, coincide con un rilancio delle attività sul campo. Dalla Siria all’Iraq gli Stati Uniti, che guidano la Coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, hanno rafforzato lo schieramento. Più uomini sul terreno e con mansioni più operative: due giorni fa sono arrivate altre 150 forze speciali a Rmelian, la base che aerea che il Pentagono ha creato come avamposto anti-IS in Siria, e da cui gli operatori americani indirizzano le azioni di una coalizione curdo-araba che combatte i baghdadisti con l’obiettivo di chiudere d’assedio Raqqa; questi, decisione di inizio settimana, saranno protetti anche dalla batterie di missili terra-terra Himars, gestite dai Marines e disposte per la prima volta in Turchia. In Iraq, l’offensiva su Mosul stalla, ma intanto è da lì che arriva il maggior numero di leader uccisi e allo stesso tempo di territorio riconquistato: Washington adesso ha schierato anche i bombardieri strategici B-52, che dal Qatar colpiscono le basi del Califfato. Più un messaggio a Baghdadi (e forse anche a Mosca) che un’utilità tattica, ma le Fortezze volanti creano deterrenza, spaventano, servono a sottolineare che gli americani fanno sul serio, stanno stringendo la cinta. È di queste ore anche la notizia che il Pentagono ha approvato la richiesta del Central Command per fermare nel Golfo la portaerei nucleare “Harry Truman”, con tutto il suo gruppo da battaglia, per attività “anti-Isis”. In Libia, area che per diverso tempo era stata ritenuta una specie di “piano B” del Califfo ed innalzata dai governi europei a pericolo numero uno (non che non lo sia, un pericolo), lo Stato islamico si scontra con il nazionalismo e tribalismo dei locali, che non ne permettono l’espansione. La debolezza è percepita al punto che le milizie che sostengono il nuovo governo Onu e quelle che lo sconfessano sono entrate in competizione su chi arriverò prima a Sirte, la roccaforte IS locale: il fine, intestarsi la vittoria di una battaglia (che probabilmente se combattuta senza unità non arriverà mai) per passare come i migliori agli occhi della legittimazione internazionale. Lo fanno adesso, perché sanno che i baghdadisti sono in rallentamento. La Casa Bianca sfrutta il momento, ed ha abbinato alle nuove disposizioni di unità militari, un alleggerimento delle regole sui raid: meno passaggi burocratici, per rendere più rapide le azioni; è macabro, ma negli ordini di Washington è stato ampliato il numero di morti civili accettabili come danni collaterali di un attacco.

UN QUADRO FLUIDO

Il quadro operativo contro lo Stato islamico è sempre fluido, per questo complesso, complicato anche dal fatto che abitualmente le dinamiche dell’IS si muovono all’interno di situazioni caotiche. Le operazioni dei governativi siriani (con Iran e Russia alleati) si sono concentrate sui ribelli, che in molti casi combattono il Califfato, permettendo a quest’ultimo di ottenere qualche successo. Diverso in Iraq, dove il governo di Baghdad, sebbene non sia roccioso (lo dimostrano le manifestazioni odierne spinte dagli sciiti di Moqtada al Sadr), ha per il momento una stabilità tale da impedire la bolla caotica che in più di un’occasione ha reso favori al Califfo. Caos che invece c’è in Libia: la corsa su Sirte tra milizie contrapposte, rischia di risolversi in uno scontro finale intralibico, che potrebbe favorire i baghdadisti. Inoltre, la mentre la dimensione statuale dello Stato islamico appare in sofferenza, quella legata al terrorismo è sempre in agguato. La guerra sarà ancora lunga dunque, perché le diramazioni sono forti e radicate; il capo della National Intelligence americana James Clapper tre giorni fa ha avvertito che cellule operative in attesa di ordini sono infiltrate anche in Italia, e gli arresti in Piemonte e Lombardia ne sono testimonianza.

trump stato islamico, isis, al qaeda

Che cosa succede davvero allo Stato Islamico

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