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Ieri un editoriale del Wall Street Journal ha messo il dito sulla piaga nei rapporti tra il presidente statunitense Donald Trump e il leader russo Vladimir Putin.Dopo l’ultimo scambio telefonico tra la Casa Bianca e il Cremlino, la Russia ha scatenato uno degli attacchi più consistenti di missili e droni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Il presidente Trump ha commentato l’escalation di Mosca con queste parole: “Penso che Putin non intenda mettere fine alla guerra!”. Il Wall Street Journal ha così commentato la dichiarazione del presidente degli Stati Uniti: “L’unica cosa sorprendente è che il presidente Trump sia sorpreso da questa scelta di Putin”. Per il Wall Street Journal, a questo punto “la Casa Bianca è di fronte a un bivio: o deciderà nuove sanzioni e l’invio di Patriot per la difesa aerea, o si lava le mani del futuro destino dell’Ucraina”.

Uno degli aspetti sconcertanti del rapporto tra Trump e Putin è che, dal 2022 a oggi, praticamente tutte le fonti aperte e riservate (per esempio, numerosi ex ambasciatori dei Paesi occidentali a Mosca) hanno confermato – e confermano tuttora – che Putin non vuole sentir parlare di diplomazia e di cessate il fuoco; intende, viceversa, continuare la guerra di aggressione fino al raggiungimento dei suoi obiettivi, che in sostanza si riassumono nella resa dell’Ucraina.

Se è comprensibile che tutti i leader dei movimenti pacifisti (salvo quelli russi che chiedono il ritiro delle truppe dall’Ucraina) si aggrappino alla più tenue speranza perché cessino le ostilità, è un vero mistero come e perché, sino a oggi, la Casa Bianca abbia dato fiducia alle comunicazioni di una varietà di “messaggeri di pace” in vario modo legati al Cremlino. Ma al di là di questo interrogativo, che fare rispetto al dilemma posto dal Wall Street Journal?

Sul piano pratico, i veri amici dell’Ucraina hanno il dovere umanitario – prima ancora che politico – di rafforzare le difese aeree del Paese, perché è l’unico modo efficace di salvare vite umane (anche se Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle non hanno il coraggio di ammetterlo), nonché di imporre nuove sanzioni. Tuttavia, sarebbe sbagliato abbandonare la strada della diplomazia; si tratta di ricalibrarla, trovando canali e modalità di comunicazione diversi da quelli in essere.

In questa prospettiva, la prima mossa è spostare il target principale degli sforzi diplomatici: i tentativi non devono più puntare su Mosca, quanto su Pechino. La Cina non vuole che la Russia perda la guerra in Ucraina, avrebbe detto lo stesso ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, in un incontro recente con l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Kaja Kallas.

Su questo piano non è vero che l’Europa sia un vaso di coccio tra due vasi di ferro (Stati Uniti e Cina). L’Unione europea può fare molto in questa fase, a condizione che superi le divisioni interne e impari la lezione dagli errori commessi nel 2014 sulla Crimea.

La crescita del ruolo degli Stati membri dell’Unione europea nella Nato dopo il summit de L’Aja non è passata inosservata, e questo pesa; ma la carta principale da giocare non è quella militare, quanto invece un’iniziativa convergente dei Paesi europei nei confronti della Cina sul piano economico e commerciale. Per l’economia cinese, il mercato unico europeo è uno sbocco vitale. L’Unione europea dispone pertanto di un’arma negoziale molto potente nei confronti di Pechino, purché abbia finalmente il coraggio di alzare la voce.

La delusione di Trump nei confronti di Putin e l’imminente Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina (giovedì e venerdì a Roma) sono condizioni ideali perché l’Unione europea mandi un messaggio forte a Pechino. Dal 24 febbraio 2022, la Cina ha dato il massimo sostegno economico e politico alla Russia: così le cose non possono continuare. O qualcosa cambia nella direzione della libertà, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, oppure l’Europa deve essere pronta a ingaggiare un braccio di ferro a 360 gradi con il Dragone, mettendo in discussione l’insieme delle relazioni economiche che legano il Vecchio continente alla Cina.

Per intraprendere una simile iniziativa non bastano la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo António Costa, assieme a Kallas: serve anche la volontà politica delle principali capitali europee, a partire da Parigi, Roma e Berlino. L’auspicio è che, in questo difficile momento storico, Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, lavori in questa direzione. Una politica assertiva verso il Dragone consente a Palazzo Chigi di coniugare due obiettivi strategici convergenti: da un lato, gli interessi nazionali e i valori che l’Italia rappresenta; dall’altro, la ripresa – su basi paritarie – di un dialogo costruttivo tra Roma, Bruxelles e Washington.

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