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Lo scorso Ottobre 2015 da Washington arrivava la notizia che secondo la famosa classifica “Doing Business” stilata dalla Banca Mondiale il nostro Paese era salito di ben 11 posizioni nella graduatoria della competitività.

Grandi festeggiamenti nel Belpaese e tra gli esponenti del nostro Governo che però hanno dimenticato che l’Italia è ancora all’ultimo posto tra i Paesi del G7 e, più in generale, è certamente lo Stato insieme alla Grecia dove è più difficile creare business nonchè uno dei più ostici al mondo secondo tutte le classifiche redatte da organizzazioni indipendenti. Insomma, c’è poco da stare allegri ove si pensi che fino a qualche tempo ci vantavamo di essere al quinto posto fra i Paesi più industrializzati dell’intero pianeta.

Quali sono le ragioni di questo dato negativo e perché tutte le più importanti imprese italiane scappano da qui ed all’inverso quelle straniere non investono più nel nostro Paese? Probabilmente il motivo principale non risiede nell’articolo 18 o nel “jobs act” sul quale questo Governo ha investito molti sforzi e molto tempo: i motivi sono altri.

Certamente il primo fattore negativo è la c.d “incertezza del diritto” confermata dai tempi biblici della nostra giustizia civile. Per un avvocato d’affari o internazionalista che dir si voglia non è ad esempio facile spiegare ad un cliente americano di dovere pazientare almeno cinque anni per avere una sentenza civile definitiva di risarcimento. Infatti, in Italia per risolvere una inadempienza contrattuale davanti al giudice ci vogliono 1.210 giorni: più di tre anni, vale a dire il quadruplo del tempo necessario in Francia e il triplo rispetto alla Germania.

A seguire l’elemento fiscale con il total tax rate sulle imprese pari al 66% ed una pressione fiscale reale pari al 52%. E’ impossibile quantificare il numero delle tasse esistenti e molto spesso si arriva all’assurdo per cui nemmeno gli stessi funzionari della Agenzia delle Entrate sanno il regime applicabile ad una certa operazione…

Vi è anche naturalmente il problema della burocrazia perchè le imprese si confrontano (rectius: si scontrano) con un numero incredibile di leggi e di obblighi amministrativi. Un esempio tra tutti ci è fornito da Confindustria che ha dimostrato come per avviare una attività in Italia è necessario in media contattare 19 uffici pubblici contro ad esempio i 4 uffici degli Stati Uniti.

E poi una altra lunga serie di ulteriori fattori tra cui il credito zero delle banche che non danno più fiducia, la corruzione purtroppo dilagante, internet veloce come una lumaca, la legislazione sul lavoro che rimane comunque ancora troppo complicata e le infrastrutture con poche autostrade ed i treni veloci che non arrivano al sud.

Ma il problema principale, la cosa più importante di tutte è una altra e cioè che all’estero siamo soprattutto “unpredictable”, vale a dire imprevedibili. In altri termini, in Italia è impossibile sapere prima con certezza quali adempimenti devono essere svolti esattamente e per poter rispondere alle domande dei clienti potenziali investitori bisogna prima consultare gli enti locali, i sindacati, le varie associazioni e controllare e ricontrollare le norme fiscali e giuslavoristiche che cambiano in continuazione. Insomma, è stato giustamente osservato che in questo modo, oltre al rischio di mercato, si addossa all’impresa anche il rischio fiscale e quello amministrativo.

Come si esce da questa situazione? Sono necessarie più certezze, meno tasse e soprattutto più incentivi per le attività di ricerca e sviluppo. Bisogna superare «gli impedimenti burocratici e di altra natura» ed imporre una inversione di rotta che si traduca in nuove regole, riforme strutturali e, soprattutto, in un cambio di mentalità. Iniziamo a fornire agli imprenditori o a chi vuole investire in Italia strumenti concreti e tempi certi. L’Italia per attirare investitori stranieri deve vincere la guerra contro la corruzione, la criminalità, la burocrazia e creare nuove infrastrutture per i trasporti e soprattutto far ripartire la macchina della Giustizia.

Infine, riguardo in particolare al problema fiscale ragioniamo sulla semplificazione invece di cercare di ridurre (invano) l’ammontare delle tasse. La spesa pubblica andrà sempre e comunque sostenuta ed allora intanto rendiamo più semplice il pagamento degli oneri tributari!

Perché fare impresa oggi in Italia è ancora una “impresa”

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