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Giorgia Meloni, la sorella dei Fratelli d’Italia, ha disinvoltamente definito “simbolico”, cioè innocuo, l’abbandono dell’aula di Montecitorio, cui aveva appena partecipato con tutti i deputati dell’opposizione, durante il discorso di replica del presidente del Consiglio Matteo Renzi sulla riforma costituzionale, nel sesto e finalmente ultimo passaggio parlamentare di una legge sulla cui sorte referendaria, in autunno, egli ha ribadito alla Camera, compiacendosene, di scommettere “tutto”, cioè la sua stessa esperienza politica.

Alla faccia del gesto simbolico. Quell’abbandono, giustamente definito da Renzi una fuga, è stato un clamoroso errore politico, l’ennesima autorete nella partita antirenziana per ciò che resta del centrodestra. E che la Meloni, in simbiosi politica con la Lega di Matteo Salvini già nella corsa al Campidoglio, ma anche in una prospettiva più ampia, ritiene di rappresentare meglio dell’ormai vecchio e logorato Silvio Berlusconi, e delle sue presunte o reali controfigure.

L’ormai ex centrodestra, proprio nel giorno in cui sul Corriere della Sera Angelo Panebianco ne celebrava una specie di funerale, nell’abbandonare l’aula di Montecitorio si è soltanto accodato all’opposizione grillina. Come le si è accodato nella campagna referendaria contro le trivelle, in una visione della politica industriale ed energetica del Paese da estrema sinistra, buona per divertirsi ad uno spettacolo comico di Grillo ma non per governare. Come non lo è il movimento dello stesso Grillo. E speriamo che, per gli errori anche dell’ex centrodestra, non gli si dia neppure l’occasione di dimostrarlo.

Siamo ormai ad un fenomeno inquietante che si potrebbe chiamare grillolegoberlusconismo, con o senza i trattini fra le tre componenti.

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A furia di accodarsi o, peggio, di inseguire i grillini anche nelle modalità “simboliche” della loro opposizione pregiudiziale, l’ex centrodestra si è dimenticato non solo di avere partecipato, almeno nella componente berlusconiana, ai primi passaggi parlamentari della riforma, ma anche di rivendicare il merito di avere preceduto Renzi sulla strada delle modifiche costituzionali. Quando uno schieramento politico dimentica la propria storia e se la lascia sottrarre dagli altri in silenzio può pure chiudere bottega.

Nel suo discorso di replica, proprio grazie all’abbandono o alla fuga dell’ex centrodestra, Renzi ha potuto arrogarsi il merito “storico” che non ha, né sul piano personale né a nome della sua parte politica, di essere stato il solo a realizzare in Parlamento una riforma organica della Costituzione, troppo a lungo considerata dai soliti buontemponi “la più bella del mondo”.

Una riforma non meno organica, forse ancora più organica e lineare di questa, fu proposta e portata all’approvazione del Parlamento dal governo e dalla maggioranza di centrodestra nella legislatura 2001-2016.  Chiamata federalista, essa fu approvata alla fine del 2005. L’Italia sarebbe quindi già uscita dal tipo paralizzante dell’attuale bicameralismo perfetto, con un Parlamento peraltro di meno deputati, e non solo di meno senatori, come prevede invece la riforma targata Renzi, se la sinistra non avesse voluto contrastarla e affondarla con il referendum del 25 e 26 giugno 2006. La cui campagna di retroguardia per il no fu retoricamente guidata dall’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, avvolto nel tricolore sui palchi dei comizi. Dove lanciò denunce di svolte autoritarie non dissimili da quelle da cui Renzi si è difeso nel discorso di replica a Montecitorio usando anche buoni argomenti: gli stessi adoperati dieci anni fa da Berlusconi e dal suo ministro delle riforme, il leghista Roberto Calderoli, ma contestati in piazza, al seguito del già citato Scalfaro, anche dall’allora presidente della provincia di Firenze. Che evidentemente da presidente del Consiglio ha potuto o voluto giudicare con più realismo la vecchia Costituzione. Della quale, studiando meglio gli atti parlamentari e le cronache degli anni dell’Assemblea Costituente, egli ha potuto documentare i “limiti” subito riconosciuti dai suoi stessi autori.

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Anziché rivendicare il merito di averlo preceduto, e di avere magari varato a suo tempo una riforma anche migliore di quella ora vantata da una sinistra abituata ad arrivare in ritardo agli appuntamenti con la modernizzazione del Paese, i fantasmi di quello che fu il centrodestra, dal capogruppo di Forza Italia a quello della Lega, e alla Meloni, hanno dunque preferito unirsi prima alle invettive e poi alla sceneggiata grillina dell’uscita dall’aula di Montecitorio. Dove Renzi, pur con i suoi errori, con i ritardi della sua parte politica, e le sue personali esuberanze, ha avuto facile gioco a irridere gli 83 milioni e più – diconsi milioni – di emendamenti ostruzionistici presentati dai leghisti al Senato nei precedenti passaggi parlamentari. E ad osservare che dopo le prossime elezioni politiche molti di quelli appena usciti dall’aula della Camera per protesta contro di lui non riusciranno a tornarvi. Specie se la sua riforma eviterà la bocciatura referendaria di retroguardia procurata anche da lui a quella dell’allora centrodestra.

Tutte le piroette del centrodestra sulle riforme costituzionali

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