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Sette persone sono state uccise stamattina nella penisola del Sinai, dopo che veicoli blindati sono esplosi in due attentati separati. Secondo la Reuters ci sarebbero anche 15 feriti, e i morti sarebbero sei militari (tra loro un ufficiale) e una civile che viaggiava in uno dei veicoli dell’esercito.

Lo Stato islamico ha rivendicato la responsabilità per gli attacchi attraverso Amaq News Agency, media di notizie collegato all’IS.

Stando alle prime ricostruzioni, diversi ordigni esplosivi sono stati piantati lungo l’autostrada a Rafah e Sheikh Zuwayed e sono state fatte esplodere a distanza, non appena i veicoli gli sono passati sopra. I portavoce militari egiziano per il momento non hanno commentato: attentati del genere sono diventati da tempo una costante.

L’Egitto sta combattendo ormai da anni una rivolta nel Sinai, nata dalle proteste a seguito del golpe contro il presidente Mohammed Morsi (eletto dalla Fratellanza musulmana), che ha portato al potere il generale Abdel Fattah al Sisi. Il gruppo islamista che occupa le postazioni nella penisola, due anni fa ha espresso la baya al Califfato, diventando ufficialmente la Provincia del Sinai dello Stato islamico.

L’insurrezione ha ucciso centinaia di soldati e poliziotti e ha iniziato ad attaccare obiettivi occidentali nel paese, spingendosi fino alle aree turistiche della capitale. Sisi ha descritto la militanza islamista come una “minaccia esistenziale” per l’Egitto, colpito più volte sul settore turistico, asset nevralgico per l’economia del Paese.

GLI STATI UNITI PENSANO A RITIRARE IL CONTINGENTE

La provincia del Sinai dello Stato islamico è una realtà combattente molto forte (l’aereo civile russo abbattuto ad ottobre dello scorso anno sarebbe stato opera dei baghdadisti egiziani) al punto che gli Stati Uniti stanno pensando di far rientrare in patria il contingente presente nel sud della penisola. Fonti della Difesa americana hanno rivelato a Barbara Starr, corrispondente dal Pentagono della CNN, l’intenzione di Washington di far rientrare “per ragioni di sicurezza” i circa 700 soldati che compongono la Task Force Sinai, reggimento che monitora sotto il Multinational Force ad Observers (MFO) il mantenimento del trattato di pace tra Egitto e Israele dal 1982. La questione è politica, perché ovviamente un gruppo di soldati americani che lascia un’area in quanto considerata troppo pericolosa non è un buon segnale per nessuno, a cominciare dall’Egitto, solido alleato degli Stati Uniti, per proseguire con Israele, altro storico paese amico con cui Washington è in una sorta di crisi d’identità e che si trova appena al di là del confine. Per questo i funzionari del Pentagono con cui ha parlato Starr hanno spiegato che in realtà si sta pensando a metodi di monitoraggio migliori attraverso osservazioni con droni, specificando che un eventuale rientro si tratterà “non di un ritiro”, ma di una soluzione tecnica: a settembre una jeep che trasportava quattro militari americani è saltata su una mina simile a quelle esplose oggi, ferendo tre dei militari; nello stesso mese alcuni avamposti di osservazione nel deserto presidiati dai soldati statunitensi erano stati già evacuati.

 

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