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Incrementare la dotazione e allungare la durata del fondo interbancario di solidarietà per il sostegno al reddito. E non è l’unica proposta che sotto il solleone la Fabi, il principale sindacato dei bancari, lancia alla controparte. Del resto, l’estate bollente delle banche preoccupa, e molto anche, dipendenti e sindacati. L’allarme era scattato rumorosamente già il 31 maggio scorso, quando ascoltando le considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, i sindacalisti presenti erano saltati sulla sedia.

Ignazio Visco, infatti, aveva chiesto agli istituti di intervenire sui costi fissi, inclusi quelli del personale, agendo pure su qualità e quantità degli organici. La risposta di Lando Maria Sileoni, segretario della Fabi (nella foto), non fu certo diplomatica: “Negli ultimi anni sono usciti su base volontaria 48mila lavoratori bancari. Governatore pensi agli alti e ingiustificati stipendi dei manager”. Poi ci si era messo Roberto Nicastro, amministratore delegato delle quattro good bank derivanti da Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara, CariChieti, che aveva spiegato come gli esuberi dei quattro istituti in vendita superino il numero di dipendenti che si possono accompagnare alla pensione grazie all’intervento del fondo di solidarietà. Anche in quel caso la reazione dei sindacati fu netta. “Risponderemo con durezza alla prima semplice percezione di eventuali licenziamenti. Vale per Abi, per Federcasse, per gli integralisti dell’ultima ora, per tutti quelli che guadagnano milioni di euro senza produrre risultati”, fu la reazione a caldo di Sileoni. Che aggiunse: “Vale, soprattutto, per i compratori delle quattro banche e vale per il messia, Alessandro Penati, presidente del Fondo Atlante”.

Lo stesso Sileoni torna ora sull’argomento, non più con una dichiarazione bellicosa, ma con una lunga analisi, una sorta di memento per le varie controparti, le singole banche ma anche le loro associazioni. Una sorta di compito per le vacanze per prepararsi alla riapertura del tavolo a settembre, quando molti dei nodi verranno al pettine, dalla cessione delle quattro banche di cui si è già detto al piano di salvataggio di Mps , con relativa ricapitalizzazione, agli interventi dei due fondi Atlante, alle altre tessere del grande gioco puzzle.

La premessa del ragionamento proposto dalla Fabi è che i lavoratori hanno fatto la propria parte e sono disposti a farla ancora, ma non a costo di un bagno di sangue. Qeste le cifre di Sileoni: “In tre anni, dal 2013 al 31 marzo 2016, dai gruppi bancari italiani sono usciti 11.988 lavoratori e altri 16.109 sono pronti a uscire entro il 2020 in base agli accordi sindacali sugli ultimi piani industriali. Di questi 8.928 sono potenzialmente prepensionabili”. Quanto alla rete di vendita, “dal 2009 al 2016 sono stati tagliati sul territorio 3.972 sportelli, di cui 1.697 nell’ultimo triennio. In particolare nelle 5 maggiori banche italiane recentemente sottoposte a stress test dell’Eba – Intesa, Unicredit, Mps, Banco Popolare e Ubi – dal 2009 al 2015 sono state chiuse o cedute 4.439 filiali”.

All’Abi e alle banche che parlano di nuovi modelli per adeguarsi al cambiamento epocale in corso, la Fabi replica ricordando che “in 10 anni nei 14 principali gruppi bancari italiani i piani industriali sono cambiati o sono stati aggiornati in media 3,5 volte, media che sale a 4 se si considerano i 5 maggiori gruppi creditizi, Intesa, Unicredit, Mps, Banco Popolare e Ubi”. Mentre “negli ultimi 7 anni i modelli distributivi sono stati modificati una media una volta ogni due anni, quindi tre volte in 6 anni, creando disorientamento nella clientela e nei lavoratori bancari e facendo perdere il contatto col territorio”. Una rivoluzione permanente che non ha trovato ancora l’assetto finale e ha portato all’esternalizzazione del 3,6% dell’attuale popolazione bancaria (10.800 lavoratori su 300 mila) che sono susciti dall’organico complessivo delle banche (mantenendo però almeno per tutta la durata dell’attuale contratto nazionale di lavoro, la copertura delle tutele di categoria).

Conclusa l’analisi, la Fabi è passata alle proposte, che partono dalla premessa che qualsiasi ipotesi di macelleria sociale sarà respinta al mittente. Il grosso dei dipendenti delle banche ha circa cinquant’anni, la pensione di vecchiaia, dunque, è un miraggio e anche per raggiungere quella di anzianità mancano un bel nuumero di anni. È indispensabile, a questo punto, implementare il Fondo di Solidarietà.

La proposta è quindi quella di allungare “da 5 a 7 anni la permanenza dei lavoratori stessi nel Fondo esuberi”, una strada che secondo Sileoni basterebbe per “risolvere definitivamente il problema delle eccedenze di personale nei prossimi tre anni”. Ma per farlo serve che nel triennio il contributo di solidarietà da 200 milioni che le banche girano al fondo Naspi (che serve agli ammortizzatori delle altre categorie) sia girato al Fondo esuberi, allungando lo scivolo già deciso a maggio per decreto dal governo. Per i sindacati non dovrebbe comunque essere modificata la caratteristica della volontarietà dei prepensionamenti e nemmeno il contributo aggiuntivo delle varie aziende “che permette al lavoratore di andare in prepensionamento volontario con un assegno tra l’80% o l’85% dell’ultimo stipendio”. La Fabi chiede, semmai, alle banche di tagliare i costi eliminando sponsorizzazioni e finanziamenti vari ad attività esterne, che non siano la ricerca medica, il sostegno a fondazioni ospedaliere e a manifestazioni artistiche e culturali. Ma soprattutto la Fabi chiede di “ridurre gli alti stipendi dei manager, dei consigli d’amministrazione, dei comitati di gestione e di sorveglianza, delle consulenze milionarie, dell’attività del recupero crediti e della cessione dei non performing loans. Attività quest’ultima che crea odiosi interventi sui territori a danno della clientela”.

Al contrario i sindacati chiedono che le attività esternalizzate ritornino dentro gli istituti che dovrebbero gestire in proprio il recupero crediti e le attività legali, allargandosi anche alla consulenza fiscale, tecnologica e gestionale. In conclusione, “più specializzazione e creazione di nuovi mestieri uscendo così dal tradizionale perimetro del settore bancario e sviluppando le condizioni per mantenere e aumentare livelli occupazionali e ricavi”. Per i banchieri, insomma, più che una lettura da ombrellone, la lista dei sindacati è un vero cahier de doléances. A settembre le risposte.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Mf/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi)

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