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L’articolo di Donato Di Santo tratto dall’ultimo numero della rivista Formiche

Le elezioni legislative del 2015 hanno evidenziato e, in qualche modo sancito istituzionalmente, una caratteristica del Venezuela post-Chávez: la mobilità dell’elettorato. Va dato atto al governo in carica di averne, pur a denti stretti, riconosciuto il verdetto eloquente e netto ancorché, per esso, amaro. Dopo un quindicennio in cui i blocchi contrapposti vedevano scarsa mobilità al loro interno e una quasi totale incomunicabilità reciproca, l’uscita di scena di una personalità autoritaria ma anche autorevole, come fu quella di Hugo Chávez Frias, riapre questi flussi e, in qualche modo, deideologizza (nel senso gramsciano, di caricatura del reale), la situazione di un Paese già di suo poco propenso alle ideologie, soprattutto se spacciate sotto forma di ideologismi. Un emblema di questa ritrovata, peculiare propensione alla mobilità può essere individuato nell’attuale vice presidente della Repubblica, Aristobulo Isturiz. Tanti anni fa era un esponente adeco, successivamente uscito da Acciòn democratica aderì a Causa R, quindi abbandonò anche quel peculiare e interessante movimento per fondare il partito Patria para todos e, infine, approdato al chavismo, è stato nominato alla sua attuale carica nel gennaio scorso.

Dopo la sbornia chavista, il risveglio mostra un Paese ancora dipendente dalla rendita petrolifera, con infrastrutture – soprattutto energetiche – carenti e una produzione agricola e industriale inadeguate. Inoltre, in Venezuela nessuno investirà nulla finché non ci sarà un quadro chiaro su determinati parametri, tra cui il cambio col dollaro, il ruolo dello Stato e le garanzie giuridiche per le imprese. A tutto ciò si somma il tema del debito estero, aggravato dall’inflazione crescente e dal deficit del bilancio dello Stato. Un quadro macroeconomico complesso, negativo, nel quale la politica ha meno margini di manovra e sta velocemente perdendo credito (su entrambe le sponde atlantiche) per il persistere dei fenomeni di corruzione.

Ciò detto, negli ultimi tempi stanno comunque accadendo cose interessanti che meriterebbero di essere analizzate. Si parla meno di bolivarianismo (e questo credo sia un gran bene), e magari si può riprendere a parlare e studiare utilmente l’opera di Bolivar; ci si riferisce meno all’Alba – progetto nato su fondamenta effimere, le cui contraddizioni intrinseche e limitata lungimiranza politica sono affiorate rapidamente, complice il combinato disposto di caduta del prezzo del petrolio e drastico mutamento alla guida del governo (che, come le già citate elezioni dimostrano, nella fase attuale non è concetto sovrapponibile a quello di guida del Paese); l’istituto di Petrocaribe soffre i contraccolpi di dinamiche commerciali che lo sovrastano e nelle quali nulla può il fulcro di quell’organismo, cioè il Venezuela; il cosiddetto socialismo del xxi secolo ha perso, insieme a una rendita di posizione che era intrinsecamente legata alla personalità di Chávez, anche ogni residua attrattività, rivelando forse l’approssimazione volontarista su cui era stato modellato; il patto con Cuba – peraltro venato di malcelate ambiguità – non ha retto né all’uscita di scena dei due contraenti, né all’arrivo di un nuovo attore, gli Usa di Obama.

Fin qui gli esempi si riferiscono al campo post-chavista. Ma anche nell’altro campo si assiste, specularmente, a fenomeni analoghi. Salvo qualche vecchio e sbiadito epigono del golpista Carmona (che speriamo rimanga nel museo delle cere accanto a coloro che aspirerebbero a un intervento dell’esercito a difesa del governo), nello schieramento uscito vincitore alle elezioni politiche la scelta appare essere quella di un’opposizione anche dura verso il governo, ma rimanendo nell’alveo costituzionale. Il problema di come gestire personalità come Leopoldo Lopez e Ledezma, senza dubbio imprigionate ingiustamente e illegalmente, comincia a essere un problema anche per l’ex opposizione, ora maggioranza nel Paese. La questione di come parlare anche a settori post-chavisti (alcuni dei quali hanno persino firmato per il referendum revocatorio), inizia ad agitare le acque di una Mud compatta quando l’unica necessità era schierarsi contro ma, in epoca post-chavista, sempre più percorsa da differenze e distinguo politici. Ed è naturale che sia così, dato che le istanze sociali bene o male agitate da Chávez (come l’emancipazione delle classi più povere, la dignità per le persone più umili e sfavorite, la giustizia sociale che riequilibrasse l’enorme disparità di rendita e molto altro), erano tutt’altro che aleatorie; e che il chavismo reale, da non confondersi con quello verbale, non è poi riuscito a porvi rimedio, queste drammatiche esigenze sociali le ritrova anche la nuova maggioranza post-chavista. E ciò non crea unità ma, al contrario, genera differenziazioni sociali (o di classe?). Sarà la politica, intesa come propone David Runciman, e non – speriamo – la guerra civile a marcare la costruzione dell’equilibrio post-chavista che (i vincitori di oggi ne prendano atto e se ne facciano una ragione!) non potrà essere la fotocopia dello statu quo ante.

Un soggetto che, nella ricerca di equilibrio, potrebbe essere di enorme aiuto è la Chiesa di papa Francesco (e dell’ex nunzio in Venezuela, Parolin). I richiami al governo e alla maggioranza parlamentare per il rispetto reciproco e il dialogo vanno in questa direzione.

Inoltre, una personalità della sinistra latinoamericana – ingiustamente demonizzata dal governo attuale – che potrebbe dare significativamente una mano a trovare soluzioni condivise è quella del segretario generale dell’Osa Luis Almagro (per la cronaca: non è un omonimo, è lo stesso Almagro che si è battuto contro l’illegittima destituzione presidenziale di Dilma Rousseff in Brasile).

Infine, anche il nostro Paese, che ha un’importante presenza di italo-discendenti (oltre che di italiani) in Venezuela, potrebbe aiutare a scongiurare derive violente nello spirito indicato dal papa. Sarebbe oltremodo utile che l’esecutivo italiano, nella persona del suo ministro degli Esteri, visitasse quanto prima il Venezuela e incontrasse il suo omologo su un’agenda di carattere governativo. Sarebbe altrettanto utile che, contemporaneamente, il potere legislativo italiano, attraverso una delegazione di parlamentari, visitasse il Paese. Un’operazione del genere, a due fronti, sarebbe un segnale forte – e allo stesso tempo rispettoso – di stimolo al dialogo. Inoltre, anche le forze politiche italiane, prescindendo dal loro colore, potrebbero svolgere nella loro autonomia un ruolo importante, in direzione del dialogo e del reciproco riconoscimento con i loro corrispondenti venezuelani. E tutto ciò sarebbe anche d’aiuto a quanto l’Europa già fa, e ancor più potrebbe fare, in tal senso.

Donato Di Santo (Già sottosegretario di Stato agli Esteri e responsabile del mensile online Almanacco latinoamericano)

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