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Severino abita in una villa patrizia che è un poco come lui. Invecchiata e incompresa. È un velaio Severino, uno che studia e inventa profili che vanno, poi, tessuti e filati. Per acchiappare il vento e tenerlo attaccato il più possibile.
Velature che vanno arripizzate. Il suo nome non è un caso perché non c’è vento più severo della tramontana cui perfino i cipressi fanno il presentatarm.
È un rovello, il vento. Un vorticare di pensieri tra gli ingranaggi del cervello. Ecco perché quando si stramba di testa si dice che non si hanno tutte le rotelle a posto.

Severino apre il cancello dalla penombra di una pertinenza lì di fianco che, nel disegno originario della villa, doveva ospitare la servitù. Il fatto è che ora Severino è servo solo di se stesso. È uno vero Severino, così vero da sembrare un personaggio.
Attraverso un corridoio stretto, ti conduce in un ambiente che non è un laboratorio e non è uno sgabuzzino. È un bazar di oggetti alla rinfusa. Il vento senza il lievito dell’entusiasmo, sgonfio della pervicacia della convinzione, non fa altro che posare polvere dappertutto. Seppellisce. È erosione. Leviga, modella, ma cancella. Questo è il fatto.
Così è Severino. Un poco cancellato, eroso dal vento che ha provato, per tutta una vita, a inseguire. Ha l’aria del centometrista che non è mai riuscito ad arrivare primo. Che è finito sempre secondo. Perfino a se stesso. Inghiottito dall’otre dell’inconcludenza come chi si ubriaca con l’illusione di aver trovato l’invenzione della vita ma poi si sveglia di fronte alla più dura delle realtà: quella di un cimitero di prototipi diventati archeologia. Vecchi e cigolanti, coperti da punti di ruggine che delle invenzioni sono le rughe.
Il vento, poi, un giorno ha deciso di beffarlo. Gli ha fatto a brandelli il tetto del piccolo capannone, portandosi a spasso le vele ammonticchiate. I fantasmi di ogni velleità quel giorno sono volati via per sempre.
Il disordine non è sempre creativo. È cifra di un sud che non si sa organizzare perché obbedisce a un carattere sedimentato dentro l’identità della latitudine.

Severino è un eccentrico, però. Quando l’interesse dell’interlocutore ne accende la fiamma pilota, pare ringiovanire. E per convincere se stesso che può ancora dire la sua, piglia e dice: – I giovani, giù a Marina, qualche consiglio mio lo accettano ancora –.
Le mani, poi, gemmano come i rami che riconoscono il vento della primavera. Corrono sopra i banchi da lavoro e spostano le cianfrusaglie che, come un maleficio, stanno nascondendo l’arte che hanno conosciuto. Solleva un telone e svela la macchina per cucire.
È un rincorrersi di gesti. Mentre il vento prova ad arrovellargli il cervello, la testa prova ad avere il pieno controllo delle mani. Queste però, più leste di tutti, corrono avanti ai pensieri e al vento. Una vela combinata male e tenuta peggio finisce sotto la macchina che ci stampiglia sopra le cuciture. La ferita è cicatrizzata. La vela di nuovo a posto, pronta per catturare il vento.

Cucire permette di creare un ordito all’interno dell’esistenza in cui l‘inventiva ha portato scompiglio. Catturare il vento e cercare di tenerlo attaccato sulla superficie della vela è metafora del respiro. Corrisponde al prendere aria per poi ributtarla fuori. È l’esercizio con cui i mortali provano a somigliare al divino.

Di eccentrici come Severino il sud è pieno. La loro cifra è avere il quid ma di non quagliare. Un malcelato godimento nel barricarsi dentro i ricordi di ciò che è stato lamentandosi di ciò che non potrà essere. Tant’è.

Un eccentrico che cattura il vento

Severino abita in una villa patrizia che è un poco come lui. Invecchiata e incompresa. È un velaio Severino, uno che studia e inventa profili che vanno, poi, tessuti e filati. Per acchiappare il vento e tenerlo attaccato il più possibile. Velature che vanno arripizzate. Il suo nome non è un caso perché non c’è vento più severo della tramontana…

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