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Per quanto malmesso pure lui, con tutte le operazioni di disturbo in corso alla sua sinistra, esterna ma anche interna al proprio partito, dove non gli perdonano la forte sintonia con il segretario e presidente del Consiglio, Roberto Giachetti può ormai scommettere realisticamente sulla possibilità di arrivare al ballottaggio nella corsa al Campidoglio. E di giocarsi il secondo tempo della partita, salvo nuovi e clamorosi infortuni dell’interessata, con la candidata grillina Virginia Raggi. Questo almeno dicono i sondaggi più affidabili, allo stato attuale delle cose.

Agli altri concorrenti, soprattutto quelli riferibili a ciò che era una volta il centrodestra, e che è ridotto ad una palude, rimarrà solo da giocare la partita del miglior perdente. Sembra una barzelletta, ma non lo è. A destra di Giachetti e della Raggi, c’è il povero Guido Bertolaso che, tallonato soprattutto da Giorgia Meloni, si accontenta ormai di prendere solo più voti di lei, da solo o, in extremis, ad un cenno dell’ormai ondivago Silvio Berlusconi, lasciando il passo ad Alfio Marchini. Su cui giustamente l’ex Cavaliere aveva messo gli occhi, prima di subire incredibilmente il veto della sorella dei Fratelli d’Italia, convinta di dover difendere la purezza popolana delle “sue” borgate romane dai cavalli, mazze di polo e berretti di quel lussuoso reperto del comunismo capitolino che sarebbe proprio Marchini, nipote e figlio di costruttori che votavano per il Pci. Nipote e figlio, però, già candidatosi a sindaco nelle precedenti elezioni per conto suo, senza intrupparsi con la sinistra, e risultando poi decisivo per la chiusura anticipata dell’amministrazione di Ignazio Marino tra i veleni e il fango di Mafia Capitale. Che lo stesso Marino ha appena rimestato in un libro evocativo della sua esperienza di “marziano a Roma”.

Può darsi che la Meloni riesca, per carità, a risultare la migliore perdente nel primo turno delle elezioni capitoline, visto anche che il povero Bertolaso ha ammesso di non poter contare neppure sul voto di sua moglie, dichiarata elettrice potenziale di Giachetti. Ma, francamente, non si capisce quale investimento politico potrà mai fare con questo bizzarro “successo” l’aspirante leader di una destra che a livello nazionale è ormai a consolidata trazione leghista.

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Un altro bizzarro successo è quello che insegue con il referendum del 17 aprile contro le trivelle marine il governatore della Puglia Michele Emiliano, che pensa di rompere le reni a  Matteo Renzi, in una posa politica un po’ comicamente mussoliniana ai tempi della guerra alla Grecia.

La sinistra che Emiliano propone e rappresenta, peraltro dividendola ancor più di quanto già non fosse prima ch’egli si mettesse alla guida di questa campagna referendaria, è quella cavernicola del no ad ogni tentativo di modernizzare il paese, anche se il no si traduce, come in una commedia, nel sì all’abrogazione di norme che consentirebbero un maggiore e migliore sfruttamento delle risorse energetiche nazionali, evitando perdite di posti di lavoro e acquisti più onerosi di gas all’estero. Una sinistra, quella di Emiliano, a dispetto dei suoi rutilanti proclami, ormai ridotta elettoralmente alla canna, appunto, del gas.

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A mettere nell’angolo la vecchia sinistra del no, di cui finiva sempre per essere succube la nuova sinistra di provenienza o matrice comunista, sopravvissuta furbescamente alla caduta del muro di Berlino cambiando nome e simbolo a quella che Pier Luigi Bersani chiamava “la ditta”, molti ritengono che sia stato Renzi con la sua coraggiosa scalata alla segreteria del Pd. E da lì, in poche settimane, al governo: un’impresa nella quale non era riuscito Berlusconi dall’esterno, battendo si gli ex o post-comunisti tre volte in quattordici anni, fra il 1994 e il 2008, ma mai rottamandoli davvero, come ha voluto e saputo fare invece in due anni Renzi all’interno del loro stesso partito.

Eppure non ha torto il direttore di ItaliaOggi Pierluigi Magnaschi a non riconoscere questo merito tutto o prevalentemente all’ex sindaco di Firenze. Che non sarebbe forse riuscito nell’impresa se il terreno non gli fosse stato spianato dallo “stravagante e a volte anche stralunato” movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Un movimento che prima ha saputo riportare alle urne un bel po’ di gente allontanata dagli altri partiti, e poi ha ridotto nelle classiche braghe di tela, dopo le elezioni del 2013, il povero Bersani, convinto di catturare in Parlamento i grillini col suo velleitario progetto di un governo minoritario “di combattimento”, come lo chiamava l’allora segretario del Pd, pre-incaricato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di risolvere la crisi.

Magnaschi ha impietosamente ricordato che il tentativo di agganciare i grillini si tradusse in “uno streaming disastroso per il Pd”. Senza il quale “non è arbitrario pensare che, dopo una breve sosta alla presidenza del Consiglio, Bersani sarebbe salito al Colle, facendosi sostituire a Palazzo Chigi dal suo amico Vasco Errani. E segretario del Pd – ha scritto ancora Magnaschi – sarebbe diventato Enrico Letta, quando non addirittura l’attivissimo Maurizio Migliavacca, un genio dell’organizzazione partitica”. Il che “avrebbe rimandato” o lasciato “con la coda fra le gambe Matteo Renzi” nel Palazzo Vecchio della sua Firenze.

C’è obiettivamente del vero in questo scenario, come c’era del marcio nel regno di Danimarca dell’Amleto di William Shakespeare.

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