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Dopo la Brexit avremo la Turkexit? La reazione di Erdogan al fallito colpo di Stato è dominata finora da un piacere della vendetta che va ben oltre la comprensibile repressione. Un vero e proprio cambio di regime sembra essere in corso in Turchia pronta a trasformarsi in una repubblica presidenziale dove il popolo diventa strumento dell’autocrate. L’esercito kemalista, guardiano dello Stato laico, viene ormai spazzato via e cade ogni ostacolo alla islamizzazione montante. Vedremo se si arriverà fino all’introduzione della sharia, sia pure in una versione meno rigida che in Iran o in Arabia saudita. Ma la direzione di marcia sembra proprio quella. Ciò chiude le porte a ogni possibile ingresso del paese nell’Unione europea. Ancor più inquietante è quel che sta succedendo nelle relazioni internazionali perché potrebbe persino prefigurare lo scenario di una Turchia che non solo non entra in Europa, ma esce dalla Nato.

Erdogan, infatti, ha puntato apertamente il dito contro gli Stati Uniti. La scusa è che ospita il suo ex alleato diventato nemico mortale, l’islamista Fehtullah Gulen. Ma ciò appare un pretesto, un semplice schermo dietro il quale s’annida il grande sospetto: che il golpe sia stato istigato più o meno direttamente dagli Stati Uniti con il benevolo consenso della Russia. Insomma, Obama e Putin, per quanto avversari, si sarebbero trovati d’accordo nel togliersi la spina nel fianco, che ancor oggi impedisce la liquidazione del Califfato e una nuova spartizione del Medio Oriente dalla Siria all’Iraq. La conferma a posteriori di questa interpretazione è l’immediato blocco della base di Incirlik da dove partono gli attacchi aerei americani che hanno messo in ginocchio l’Isis. Perché una scelta del genere se non c’è dietro un’accusa agli Stati Uniti e un ricatto esplicito volto a ribadire il ruolo chiave della Turchia nella Nato?

Non solo, il popolo sceso in piazza a Istanbul e le moschee illuminate in tutta l’Anatolia, là dove più forte è il consenso per il partito islamista e per il suo capo, mostrano che Erdogan usa ormai esplicitamente la leva ideologica che può diventare il suo vero instrumentum regni. Quel popolo composto da energumeni a torso nudo (forse poliziotti?) che sfidano i carri armati e giovani inneggianti all’Islam, alla vendetta e alla sharia, è diventato la sua arma più forte. Il nuovo Sultano protettore dei musulmani, la nuova Porta tra oriente e occidente, tra mondo cristiano e mondo islamico. E’ questo il disegno che Erdogan aveva in mente da tempo e che il golpe maldestro gli rende più facile.

Fino a che punto arriverà il nuovo defensor fidei? Fino a difendere anche i macellai neri dell’Isis? No, ma sarà lui a dettare le condizioni. Ora che la riconquista del territorio strappato da Abu Bakr al Baghdadi è quasi completata, diventa molto più difficile per la Russia e gli Stati Uniti tracciare una nuova linea Balfour, come quella disegnata dalla Gran Bretagna nel 1917 per dividersi l’impero ottomano. Sarà impossibile dare uno stato ai curdi (ammesso che fosse facile prima) e assicurare un futuro a Bashar Assad. Anziché baluardo del fianco sud-orientale dell’Alleanza atlantica, Erdogan può trasformarsi nell’arbitro del nuovo Medio oriente.

E’ una sconfitta chiara per Vladimir Putin che pregustava una nuova Yalta. Ed è un tracollo per la strategia di Barack Obama. Già debole nella gestione delle crisi in Nord Africa, in Siria e in Iraq, l’amministrazione americana si era ripresa negli ultimi tempi intensificando gli attacchi aerei contro il Califfo, armando e sostenendo l’offensiva di terra dell’esercito iracheno. Il rischio è che, a questo punto, le stesse operazioni militari possano essere messe a repentaglio.

Nell’immediato, Erdogan chiede lo scalpo di Gulen. Il segretario di Stato John Kerry vuol vedere le prove della colpevolezza. Forse ci sono, forse no, ma non sarà difficile fabbricarle. Se Washington cede è una resa incondizionata. Obama non solo si spara sugli alluci, ma azzoppa anche la candidatura di Hillary Clinton e apre la porta a un Donald Trump che batte la gran cassa accusando le incertezze, le contraddizioni, i veri e propri pasticci della politica estera americana negli otto anni di Obama (e nei quattro anni in cui Hillary è stata la responsbaile degli affari internazionali). Se tiene duro, la frattura con la Turchia potrà arrivare fino al punto da mettere in pericolo la Nato.

Un dilemma terribile al quale il presidente non è preparato. E per la verità nessuno lo è, tanto meno Trump, ma lui sta all’opposizione e può permettersi di fare una facile propaganda. Tutto questo mentre Obama è più che mai anatra zoppa. La via d’uscita facile facile sarebbe passare la patata bollente al nuovo inquilino della Casa Bianca, ma non è possibile. Non lo vuole innanzitutto Erdogan che intende sfruttare fino in fondo la sua vittoria. Come dargli torto? Il putsch è stato una tale collezione di imperizia tecnica e ingenuità politica, da sembrare fasullo, scrive Roger Cohen sul New York Times che parla di “improbabile bersaglio di un improbabile colpo di stato”. Bando ai complottismi. Agli storici l’ardua sentenza. E’ già abbastanza ingarbugliato quel che vediamo davanti ai nostri occhi.

Perché tra Erdogan e Obama succedono cose turche

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