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Banche allo sbando. Speriamo sia solo una baruffa che non si trasformi in una tempesta tropicale. Che cos’è che non va? Alla base di tutto è, da tempo, il conflitto tra la politica monetaria e quella di bilancio. Contraddizione che le vicende inglesi hanno fatto esplodere. Soprattutto la mancata condivisione, a livello europeo, di un comune traguardo da perseguire. Mario Draghi, stressando al massimo i poteri concessogli dal Trattato istitutivo della BCE, aveva indicato con chiarezza il target da perseguire: un tasso d’inflazione pari al 2 per cento. Obiettivo storico della banca centrale, reso ancora più cogente dal pericolo di un avvitamento deflazionistico. Per questo motivo, superando remore e conflitti interni al board, aveva impostato il quantitative easing. Vale a dire una politica monetaria iper espansiva, fino al punto da determinare tassi d’interesse negativi.

Operando nel modo descritto, la BCE riduceva, seppure non del tutto, le distanze che la separavano dalla FED americana. Nello statuto di quest’ultima, compito di Janet Yellen e dei suoi predecessori non era mai stato solo la stabilità dei prezzi. Ma quest’obiettivo da coniugare con quello di una crescita complessiva del sistema economico; nella giusta presunzione che se l’economia reale non cammina, alla fine anche la stabilità monetaria diventa un illusione. In un sistema democratico, qualunque esso sia, gli elettori non guardano alle statistiche, ma ragionano con le proprie tasche. E se i conti non tornano, le reazioni politiche, ancor prima che economiche, sono inevitabili. Come appunto si può oggi vedere in Europa: dal referendum inglese alla crescita dei movimenti populisti.

La saggezza di Mario Draghi, purtroppo, non è bastata. E’ infatti venuta meno l’altra gamba, pure presente nella realtà americana, che doveva completare il quadro. Una politica di bilancio espansiva, seppure in modo giusto. Che alimentando la domanda interna, soprattutto di quei Paesi – leggi Germania ed Olanda – che potevano permetterselo, avrebbe consentito di unire gli sforzi per battere l’astinenza dei consumatori. Bassi tassi d’interesse e crescita della domanda di beni, avrebbero in tal modo avviato un circolo virtuoso. Il permanere dell’austerity ha invece soffocato ogni impulso, rendendo non solo vani gli sforzi della BCE, ma determinando effetti collaterali negativi, dovuti alla caduta dei rendimenti finanziari.

In generale le banche si sono trovate al centro di questa contraddizione. Le banche italiane in misura maggiore. Se produrre diventa più difficile a causa della caduta della domanda, le richieste delle aziende, al sistema bancario, entrano in sofferenza. Non che manchi la domanda di credito. Ma è una richiesta finalizzata prevalentemente alla rinegoziazione dei prestiti contratti in precedenza, piuttosto che rivolta a produrre beni che garantiscono un utile d’esercizio. Ed ecco allora che le sofferenze ed i crediti incagliati, nonostante il minor costo della provvista, tendono ad aumentare e contagiano i bilanci delle banche, rendendo necessari aumenti di capitale, per garantire il rispetto dei ratio tra il loro patrimonio ed i relativi impieghi. Richieste, tuttavia, a cui il mercato non guarda con buon occhio, spingendo i vecchi stockholder a liquidare le proprie posizioni in borsa. Con caduta dei prezzi relativi ed avvio di una spirale.

Le banche italiane sono le più colpite. Lo sono a causa del modello di business che le caratterizza. La loro proiezione internazionale è limitata. Non parlano ancora correttamente l’inglese. Negli anni passati questa relativa “arretratezza”, tutta domestica, le ha preservate dalle lusinghe della grande finanza e dal moral hazard che ha scatenato gli spirits delle istituzioni finanziarie inglesi, francesi, tedesche o americane. Nel corso della crisi del 2008 hanno, pertanto, mostrato una solidità maggiore delle proprie consorelle. Ma da allora il Pil italiano è ancora sotto di circa 9 punti rispetto al picco relativo del 2007. A dimostrazione che quella solidità si è progressivamente dissolta. Mentre gli altri asset, rappresentati dal possesso di titoli di Stato, subiscono i contraccolpi della crescita degli spread, a seguito delle vicende inglesi. Con ulteriori forti perdite in conto capitale.

Non avendo la possibilità di poter diversificare i rischi, sia dal punto di vista geografico-territoriale, sia per quanto riguarda il modello di business, non resta loro che guardare con crescente preoccupazione agli sviluppi della crisi. Ed al venir meno di quell’ultima isola, rappresentata dalla stabilità del corso dei titoli di Stato, in cui erano investiti ingenti capitale. Per arginare l’onda di piena, che prima o poi si manifesterà, è necessario intervenire il più rapidamente possibile. Con un intervento dello Stato, che si faccia garante della solvibilità dell’intero sistema, in attesa che lo stress alimentato da Brexit – e che è all’origine delle ultime turbolenze – possa, in qualche modo, allentarsi. Ed è qui che entra in gioco l’Unione europea.

Le ragioni del perché l’Europa non può rimanere indifferente si desumono dall’analisi condotta. Se la banche pagano le contraddizioni della politica economica è giusto che i responsabili di quella politica si facciano carico delle conseguenze che hanno prodotto. Nello stesso tempo è innegabile che Brexit abbia determinato uno shock simmetrico, destinato a colpire tutti i partner europei. Nelle peste saranno le banche italiane, ma non solo. Ed allora occorre operare affinché tutte le procedure d’emergenza, in qualche modo previste dai Trattati, possano operare per scongiurare pericoli maggiori. Certo: la soluzione migliore sarebbe un intervento in nome di un’Europa, che sta rinsavendo. Ma se nemmeno questa volta la colomba solcherà il cielo di Bruxelles, che almeno non si frappongano ostacoli all’intervento dei singoli Stati. Dopo aver messo da parte ogni folle proposito di usare il bail in come una scure.

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