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Gli analisti di politica internazionale che seguono le evoluzioni della politica cinese si preoccupano (alcuni di loro) per il continuo aumento nelle spese per gli armamenti, per l’aumentata aggressività nel Mar Cinese Meridionale e per l’estensione della sua sovranità nazionale e marittima trasformando semplici scogli in isole, acquisendo così maggiori acque territoriali.

Non è un caso che perfino il Vietnam, un tempo alleato di Pechino, si sia sentito costretto a riallacciare rapporti collaborativi di vario genere con gli Stati Uniti. L’accresciuta presenza aerea e navale americana serve, d’altra parte, per tranquillizzare i tradizionali amici nel sud est asiatico dalla sensazione di concreto pericolo alimentato dal nuovo protagonismo della Cina in quelle zone.

Qualche osservatore si focalizza anche sui problemi interni del gigante asiatico, notando come la locale bolla finanziaria non si sgonfi e il divario tra zone ricche e aree povere non si assottigli favorendo così sempre più numerose tensioni sociali. Ciò che tuttavia non è analizzato, o non lo è sufficientemente, è la politica cinese verso i Paesi economicamente o finanziariamente deboli, soprattutto se ricchi di materie prime o locati in posizioni strategiche.

È comprensibile che, per nutrire la numerosa popolazione povera di terre coltivabili e per consentire lo sviluppo industriale, la Cina debba assicurarsi il controllo delle forniture di generi alimentari e di materie prime. Ciò implica anche la messa in sicurezza delle vie di comunicazione verso la madrepatria e così si potrebbero interpretare gli atti di prepotenza nel Mar Cinese Meridionale a spese dei vicini. Eppure, anche ben lontano da quei luoghi, Pechino sta perseguendo, da anni e quatta quatta, una politica di penetrazione in numerosi altri Stati. Se si osservano con attenzione le mosse delle aziende cinesi in Africa e in Sud America e si sommano ai numerosi acquisti di società ricche di know-how in Europa e America del Nord, ci si accorgerà che una pura logica commerciale non basta a spiegare le loro azioni.
Davanti a gare per materiali o servizi, magari di valore contenuto, molto spesso i cinesi hanno presentato offerte più grandi anche venti o trenta volte, includendovi un finanziamento garantito dal Governo di Pechino.

Il prestito in questione non coprirà solo la fornitura richiesta ma vi aggiungerà la realizzazione d’infrastrutture necessarie a quel Paese. È quanto avviene soprattutto nel Continente Nero e in America Latina. Si tratti di ammodernamento o di nuove costruzioni di strade, porti, ospedali, edifici pubblici o di telecomunicazioni, i milioni di dollari sono messi a disposizione dei Governi locali e si garantisce la realizzazione delle opere in tempi rapidi. Solitamente, le offerte prevedono che questi finanziamenti possano essere restituiti a tassi più che ragionevoli nell’arco di trent’anni. Diventano, quindi, eccezionalmente allettanti per Presidenti e Primi Ministri desiderosi di mostrare ai loro concittadini realizzazioni che le casse locali, spesso vuote o esauste a causa di corruzione e inefficienze, non potrebbero mai permettersi. Se, in aggiunta, il Paese coinvolto non riceve finanziamenti privati o pubblici dall’Occidente a causa di un’evidente instabilità politica o di mancato rispetto dei diritti umani, le offerte di Pechino diventano irrinunciabili.

Solo al momento della firma dei contratti, a gara chiusa e vincitore stabilito, ci si accorge che la generosità cinese pretende, come è ovvio, garanzie sovrane. Nnel caso che i pagamenti dovuti non possano essere onorati, la proprietà delle opere realizzate passerà, a tutti gli effetti, allo Stato Cinese erogatore dei finanziamenti.
Poiché’ l’instabilità politica in Africa è molto diffusa e le gestioni finanziarie dei Governi non sono mai da manuale, la probabilità che, allo scadere del finanziamento gli impegni assunti non siano mantenuti è altissima. Risultato? Tra poche decine di anni la Cina si troverà a possedere direttamente le maggiori infrastrutture strategiche del Continente e, talvolta, le miniere o i pozzi pure oggetto dei generosi “prestiti”.
Tutto sta accadendo nel silenzio di analisti e di politici del nostro mondo.

Anche qualora qualche politologo lanciasse l’allarme, si sentirebbe rispondere che, nella sua storia, la Cina non è mai stata particolarmente aggressiva al di fuori dei propri confini e che il suo esercito e la sua marina militare non sono, né saranno, in grado di fronteggiare la potenza militare degli Stati Uniti.
Si sottovaluta, così facendo, che il colonialismo moderno è molto più economico che militare e che il sobbarcarsi la gestione di popoli geograficamente lontani è più oneroso e più difficile che condizionarli economicamente. Non sarà nemmeno necessario in un futuro vicino, dover affrontare il costo d’intere flotte in giro per il mondo o di basi militari costose e politicamente ingombranti. Sarà sufficiente mantenere il controllo economico e gestionale sui gangli vitali dei Paesi interessati per condizionarne ogni scelta.

Un piccolo esempio indicativo? Nei giorni scorsi il Kenya ha estradato otto cittadini di Taiwan accusati di crimini e d’ingresso illegale non verso la loro patria d’origine, bensì verso la Cina continentale. A nulla sono valse le proteste del Governo di Taipei. Forse per pura coincidenza, la Cina ha concesso a Nairobi, pochi giorni dopo, un prestito di 530 milioni di dollari per coprire il locale (e crescente) deficit di bilancio. Da notare che la Banca Mondiale aveva, già in marzo, messo in guardia il Kenya per il fatto che “altri” prestiti dalla Cina avrebbero portato il debito del Paese a “livelli insostenibili”.

Un altro esempio? Lo Zimbabwe (ex Rhodesia), soffocato da un’inflazione enorme, ha rinunciato ad avere una valuta locale ed ha adottato, dallo scorso gennaio, lo yuan quale moneta ufficiale del Paese in cambio della cancellazione di un debito verso Pechino di 40 milioni di dollari.

I pagamenti internazionali vedono la valuta cinese ancora al quarto posto, dopo il dollaro, l’euro e la sterlina, ma il suo trend crescente è evidente.
Gli investimenti cinesi in settori strategici e ricchi di know-how si espandono in tutto il mondo e, mentre mirano ad assicurarsi le importazioni, si muovono da sempre anche nella direzione opposta, quella delle esportazioni. Ben quindici sono i contratti con vari Paesi per la creazione di zone di “Cooperazione commerciale” e sviluppo industriale e vanno dal Venezuela a Mauritius, dall’Indonesia alla Russia, dalla Nigeria al Pakistan e via dicendo. Si tratta sempre d’investimenti finanziati dal Governo di Pechino con le clausole di cui sopra e molti di loro sono già operativi dal 2006. A tutt’oggi la Cina è già il primo partner commerciale di ben 124 Stati, mentre la “superpotenza” statunitense si ferma a 52.

Invero, qualcuno ha cominciato a capire che le “donazioni” cinesi non sono del tutto disinteressate e che l’apparente generosità del momento nasconde ambizioni di futuro controllo, anche politico. È per questa intuizione che qualcuno di questi progetti, approvato in un primo tempo, è stato poi cancellato o sospeso con pretesti vari. Sono i casi del Marocco, dell’Algeria e della Corea del Sud. Tuttavia pochi altri Paesi cominciano a porsi le giuste domande o possono permettersi di farlo.
Purtroppo, i politici nostrani pensano soltanto a breve termine, alle loro prossime e frequenti scadenze elettorali, al consenso immediato e non si curano di come potrà essere il mondo fra trenta o quaranta anni. Al contrario, la saggia dirigenza cinese è tradizionalmente abituata a guardare su tempi lunghi, almeno sull’arco di mezzo secolo.

Ecco dove sta la differenza tra i “politici” e gli “statisti”. Potremo mai cambiare noi?

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