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Matteo Renzi non si è naturalmente lasciato scappare il “magistrale” assist di Giorgio Napolitano, come lo ha definito, riproponendo l’astensione dal referendum di domenica contro le trivelle, e il suo governo, promosso da nove Regioni di cui sette a guida di sinistra, a cominciare dalla Puglia del governatore Michele Emiliano. Che nega a parole di volere fare le scarpe al segretario del partito, vantandosi anzi di avere contribuito alla sua elezione, ma di fatto ne contesta ogni giorno la leadership nei salotti televisivi dove accorre, o cui si collega quando non riesce a combinare gli orari di trasmissione con quelli dei treni o degli aerei.

Non gli vorrà fare le scarpe al congresso del Pd programmato per l’anno prossimo, salvo anticipi, ma è difficile pensare e dire che il governatore pugliese voglia solo risuolarle all’amico Matteo, come usa chiamarlo nelle riunioni di partito: quella, per esempio, del 4 aprile scorso, chiusasi con 98 sì al segretario contro 13 no e movimentata da Emiliano con un’autorete che non gli ha fatto molto onore neppure come ex magistrato, o magistrato in aspettativa, se non si è dimesso e pensa di reindossare la toga quando si stancherà della politica, o la politica e gli elettori si stancheranno di lui.

L’autorete di Emiliano – rinfreschiamo la memoria ai lettori – fu quella di rinfacciare a Renzi, lamentatosi delle lentezze o inconsistenze dimostrate dagli inquirenti di Potenza, ora alle prese con l’affare petrolifero di Tempa Rossa, una sentenza appena emessa dal tribunale lucano. Che aveva l’inconveniente però di essere solo di primo grado, arrivata a distanza di otto anni dall’apertura delle indagini, anch’esse riguardanti petrolio e affini, ma soprattutto priva di ogni effetto pratico perché destinata a prescrizione sicura in pochissimi mesi. Una giustizia di cui c’era e c’è ben poco di cui inorgoglirsi.

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Con i tempi che corrono, con le abitudini che si sono prese in almeno alcune delle Procure, con l’autolesionistica adesione della destra che fu di governo alle posizioni della sinistra refrattaria al governo, con la copertura fornita dai presidenti delle Camere e persino della Corte Costituzionale al clima, diciamo così, denigratorio verso chi non condivide che il “dovere” civico di votare valga anche per i referendum abrogativi, la cui validità è costituzionalmente condizionata all’affluenza alle urne da parte della metà più uno degli aventi diritto al voto; con tutto questo bailamme, dicevo, non ci sarebbe da stupirsi più di tanto se a qualche inquirente saltasse ora in mente l’idea di contestare ai “pubblici ufficiali” Giorgio Napolitano, Matteo Renzi e altri il reato di promozione e organizzazione dell’astensione. Sarebbe applicata per la prima volta una curiosa norma che esiste, in effetti, come ha di recente assicurato più con ironia che convinzione sul Corriere della Sera il costituzionalista Michele Ainis.

 

Di questa norma, ammesso e non concesso si possa scambiare per promozione e organizzazione dell’astensione una opinione a suo favore espressa da chi ha cariche o ruoli pubblici, sarebbe forse il caso di tentare l’abrogazione in Parlamento, o col ricorso ad un altro referendum. Giusto per togliere di mezzo una cosa a dir poco illogica. Una norma peraltro disattesa in passato, con tanto di campagne e pratiche astensionistiche, da chi oggi ne reclama validità e rispetto per avere l’occasione di usare le trivelle, come si diceva, contro l’odiato governo di turno.

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Archiviato in qualche modo lunedì prossimo il referendum contro le trivelle, dopo avere calcolato votanti e voti, prepariamoci alle stranezze e assurdità di cui si mostrano già capaci gli avversari di Renzi decisi a fargliene perdere un altro per lui ancora più rischioso e decisivo: quello d’autunno sulla riforma costituzionale. La cui validità prescinde dal cosiddetto quorum di partecipazione, cioè dal numero dei votanti.

 

Per invogliare gli elettori a bocciare la riforma del bicameralismo ed altro, riesumando gli argomenti già usati da Oscar Luigi Scalfaro dieci anni fa contro le modifiche alla Costituzione approvate in Parlamento dal centrodestra, Marco Travaglio ha chiamato in causa sul suo Fatto Quotidiano addirittura la Resistenza, con la maiuscola, al nazifascismo. Una Resistenza dalla quale nacque anche la Costituzione della Repubblica, per cui cambiarla, come ha voluto fare Renzi, significherebbe tradire la lotta dei partigiani e la loro festosa “Bella Ciao”.

Di Resistenza e partigiani traditi – ahimé – farneticavano negli anni di piombo della Repubblica anche i brigatisti rossi e i loro fiancheggiatori, convinti di riportare la democrazia alla purezza delle origini ammazzando guardie, giornalisti, magistrati, intellettuali, politici, sindacalisti e chiunque altro capitasse loro a tiro. Andiamoci piano con certi presunti argomenti. Non perdiamo il limite, per favore, delle cose che si dicono e si scrivono. O dei concetti che si ritiene di esprimere scambiando per tali quelle che sono solo balle. O esagerazioni retoriche che hanno già prodotto troppi danni a un Paese che non li meritava, per quanto mal governato potesse essere o apparire. Ne va del decoro dell’intelligenza.

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