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Dopo un anno di attesa e diversi ripensamenti nelle ultime settimane, domani la riforma del credito cooperativo potrebbe finalmente arrivare sul tavolo del consiglio dei ministri insieme alle nuove misure in materia di sofferenze. Se le linee generali del documento sono note da tempo (capogruppo unica, contratto di coesione, soglia minima di capitale), c’è un aspetto decisivo ancora da chiarire.

IL NODO DA SCIOGLIERE

Si tratta della cosiddetta opt-out ossia della modalità attraverso la quale gli istituti potranno uscire dal gruppo unico per aderire ad altre proposte associative o lavorare in proprio. Oggi il tema è particolarmente sentito all’interno della variegata compagine di banche che compongono il credito cooperativo italiano, perché se è vero che la proposta formulata nei mesi scorsi da Federcasse è stata condivisa dai più, diverse realtà vogliono difendere la propria autonomia.

COSA DICE L’AUTORIFORMA

Su questo punto l’autoriforma elaborata nei mesi scorsi da Federcasse è molto chiara: «L’adesione al Gruppo Bancario Cooperativo è condizione per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria in forma di banca di credito cooperativo. Se la bcc non aderisse al gruppo, andrebbe incontro alla liquidazione o alla trasformazione in una spa o in una banca popolare», spiegava il documento.

LA QUESTIONE FISCALE

Detto così, il percorso sembra abbastanza semplice, ma c’è un forte elemento deterrente. Le Bcc godono infatti dell’esenzione fiscale sugli utili e hanno l’obbligo di mandare a riserva circa il 70% degli utili. Tali riserve sono indivisibili e servono a svolgere attività bancaria e mutualistica ma, nel momento in cui viene a cessare l’attività mutualistica, la banca è tassativamente obbligata a disfarsene a favore dei fondi mutualistici. Si tratta, insomma, di un sacrificio molto oneroso, soprattutto in una fase in cui il patrimonio delle banche è già messo sotto pressione dalla cattiva qualità del credito. Ecco perché in questi giorni si starebbe ragionando su una soluzione meno penalizzante.

CHE SUCCEDE SE SI ESCE DAL GRUPPO

Secondo quanto risulta, le banche intenzionate a uscire dal gruppo potrebbero affrancare parte delle riserve con un’aliquota oscillante tra il 15 e il 20%. La misura, però, sarebbe applicabile solo entro soglie predefinite con l’obiettivo di preservare la stabilità patrimoniale degli istituti ed evitare alle banche gravosi aumenti di capitale per sostenere il cambio di governance.

IL RUOLO DELLA BANCA D’ITALIA

La complessità tecnica della materia potrebbe peraltro suggerire all’esecutivo di demandarne la regolamentazione agli uffici della Banca d’Italia che nei prossimi mesi dovranno normare l’attuazione della riforma. In ogni caso il vantaggio offerto da una misura di questo genere sarebbe doppio: da un lato le bcc potrebbero decidere con maggiore libertà le strategie in relazione all’opt out; d’altra parte lo Stato potrebbe incassare risorse preziose a seguito dell’affrancamento.

CHI PUNTA ALL’AUTONOMIA

Resta da capire chi sia davvero interessato a uscire dal gruppo unico. Gli occhi sono puntati sugli istituti che finora hanno mantenuto una linea sostanzialmente autonoma rispetto a Federcasse, come la Banca di Bologna o il Gruppo Cabel, senza dimenticare che la strategia di andare da soli potrebbe tentare anche la Bcc di Roma (principale istituto di credito cooperativo italiano) e la toscana ChiantiBanca per la cui presidenza si è recentemente reso disponibile Lorenzo Bini Smaghi.

(Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano MF/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi)

Ecco come sarà la riforma delle Bcc

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