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Il modo in cui evolve la tragedia delle vittime italiane che sono state restituite l dolore delle loro famiglie rasenta gli aspetti più deplorevoli dei metodi delle età barbariche I due ostaggi uccisi, Salvatore Failla e Fausto Piano, sono stati per diversi giorni nelle mani di banditi o di uomini che pretendono di essere personalità di governo, nessuno dei quali si è fatto scrupolo di usare le loro salme come merce di scambio. Di quale scambio può dirlo solo chi ha il controllo della situazione. Se si tratta ancora di banditi, è chiaro che essi speculano sulla pietà delle famiglie e sulla sensibilità dei diplomatici italiani allo scopo di ottenere altro denaro o altro potere; se si tratta del governo di Tripoli o di qualcosa di simile, la motivazione diviene trasparente quando si leggono le interviste che i suoi esponenti rilasciano e si riassume nella volontà di giocare sulle vittime per ottenere quella forma di riconoscimento internazionale che non è ancora stata loro concessa.

Ma in tutto questo non si può nascondere un senso di profonda nausea, nel sentire che i rapitori di cadaveri abbiano preteso di fare a casa propria l’autopsia dei cadaveri poiché ciò è imposto dall’ordinamento giuridico al quale essi obbediscono. Di quale ordinamento si può seriamente parlare in un paese che ha cessato di esistere e nel quale chi governa a Tripoli è stato messo al bando persino dalle Nazioni Unite, con il consenso unanime del Consiglio di Sicurezza? Se si considera la questione nella sua complessità si possono immaginare i contorti ragionamenti che stanno alla base di questo modo di comportarsi. Ma ciò non impedisce di esprimere la valutazione più aspra rispetto a una palese violazione delle regole elementari della convivenza umana.

Proprio questa osservazione impone che si ritorni sul tema dei rapporti dell’Italia con la questione libica. Il modo in cui il ministro Paolo Gentiloni si è espresso alla Camera dei deputati non può che essere condiviso. Esso porta a respingere le pressioni di coloro che premono perché un massiccio intervento militare italiano abbia luogo presto. Nessuno può negare che la questione libica riguardi l’Italia molto da vicino e che essa coinvolga legittimi interessi economici. Tuttavia i gruppi libici che combattono e si combattono l’un l’altro per avere la supremazia nel controllo delle ricchezze locali non manifestano alcuna idea verso la quale si possa nutrire rispetto o comprensione. Il regime di terrore che domina la Libia dovrà essere circoscritto e sconfitto ma lo sdegno per ciò che è accaduto non può aprire la strada a reazioni inconsulte, che ripetano operazioni già viste negli ultimi decenni.

Dice il New York Times che dagli Stati Uniti si preparerebbero bombardamenti a tappeto sulle postazioni controllate dagli islamisti. Non si può sapere se questo sia vero ma si deve capire che i droni americani, guidati tecnologicamente e senza pericolo per gli uomini, possono distruggere ancora altre parti della Libia ma nel seguire questa comportamento non possono contare sulla complicità italiana. È necessario ripetere che chi ha fatto il danno ha il dovere di porvi riparo. Un comportamento diverso sarebbe per l’Italia come una forma di ossequio a un machiavellismo mal riposto, poiché legittimerebbe un nuovo spargimento di sangue, del quale non si sente alcun bisogno. I tormenti patiti dalle famiglie delle vittime dei sequestri libici e poi da quelle di coloro che attendono di rivedere ciò che le autopsie hanno lasciato dei due morti sono una legittimazione della prudenza e non possono diventare il pretesto di nuove avventure, concepite prima ancora che gli stessi libici riescano a darsi un governo capace di restituire quelle terre alla vita civile.

Articolo tratto dal profilo Facebook di Ennio Di Nolfo

Cosa deve fare l'Italia in Libia?

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