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Doveva accadere, prima o poi. Ed è accaduto, per quanti sforzi Matteo Renzi abbia compiuto prima e dopo la conquista della segreteria del Partito Democratico e del governo di non essere paragonato a Bettino Craxi. Che egli ha rifiutato più volte per ragioni “pedagogiche” di ammettere al Pantheon del suo riformismo, preferendogli per ragioni “morali” e di “abnegazione” il rivale Enrico Berlinguer, pur teso per tutta la vita più a ingessare che a rinnovare la sinistra.

Con la decisione di schierare il Pd sul fronte dell’astensionismo nel referendum del 17 aprile contro le trivellazioni marine Renzi ha fatto come Craxi di fronte al referendum promosso da Mario Segni contro i voti plurimi di preferenza per la Camera.

Questa volta Segni non c’entra, e neppure Marco Pannella, che aiutò “Mariotto” in quell’impresa. Il referendum contro le trivellazioni marine è stato promosso da nove regioni, di cui sette a guida di sinistra, e impugnato come una clava contro Renzi, specie dopo l’ordine di astenervisi, dal “governatore” pugliese Michele Emiliano. Il quale gioca da tempo a fare l’antagonista futuro dell’attuale segretario del partito, pur negandolo a parole, e con l’aiuto dello stesso Renzi. Che gli strizza l’occhio come possibile avversario, con l’aria di chi non lo teme.

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Gli antirenziani, fuori e dentro il suo stesso partito, hanno augurato al presidente del Consiglio lo stesso tonfo di Craxi nel 1991, quando l’allora segretario socialista – in verità, non da solo perché su quella posizione gli fece compagnia l’allora emergente leader leghista Umberto Bossi – invitò gli elettori ad “andare al mare”, per far mancare al referendum contro le preferenze il cosiddetto quorum di partecipazione, cioè la metà più uno degli iscritti alle liste elettorali.

Il 9 giugno di quell’anno gli italiani affollarono invece le urne, con una partecipazione del 62,5 per cento, e stracciarono i voti plurimi di preferenza, lasciandone in piedi solo uno. Cosa, peraltro, che comportò l’anno dopo – che fu anche l’anno dell’esplosione di Tangentopoli – il più costoso rinnovo del Parlamento, dovendo i candidati contendersi da soli all’interno della lista del proprio partito l’unica preferenza permessa, con quale e quanto sforzo propagandistico è facile immaginare.

Per Craxi la botta politica fu certamente grossa. Fu come scheggiare un cristallo: quello delle ambizioni del leader socialista. Che, per quanto già ammalato, era ancora decisivo per gli equilibri politici del Paese e si proponeva, d’intesa con l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, di tornare l’anno dopo a Palazzo Chigi. Da dove la Dc guidata da Ciriaco De Mita l’aveva invece allontanato nel 1987 con una crisi provocata dal terrore che lo stesso De Mita aveva di Craxi e dei meriti acquisiti in quattro anni di governo: sul piano interno con il calo drastico dell’inflazione, da lui ereditata a due cifre, e sul piano internazionale con la prova di forza data nella famosa notte di Sigonella.

Fu la notte dell’11 ottobre 1985, quando Craxi impedì che gli alleati americani dettassero legge sul territorio italiano prelevando i dirottatori palestinesi della nave Achille Lauro, intercettati in volo dal Cairo a Tunisi, per farli giudicare negli Stati Uniti. Persino i comunisti, nemici giurati di Craxi, dovettero applaudirlo in Parlamento. E il presidente americano Ronald Reagan, anche a costo di smentire il povero Giovanni Spadolini, dimessosi da ministro della Difesa per dissenso dal presidente del Consiglio nella gestione della vicenda, dovette chiedere praticamente scusa per le intemperanze dei suoi militari nella base aerea siciliana.

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Devo dire che non era mancato, fra gli amici e i consiglieri di Craxi, chi nel 1991 cercò di dissuaderlo dal boicottaggio del referendum contro le preferenze, incitandolo a sostenerle a viso aperto. Lo esortai in questo senso anch’io dalla direzione del Giorno, nel contesto di un’amichevole polemica con Mario Segni, cui cedetti alla vigilia del voto lo spazio dell’editoriale per potergli meglio replicare. Ma Bettino fu irremovibile nella sua posizione astensionistica, convinto di avere una percezione più completa e fondata degli umori del pubblico.

La stessa convinzione deve avere Renzi, evidentemente, a proposito del referendum contro le trivelle, sfidando gufi, rosiconi e com’altro chiama quelli che ne contestano scelte e previsioni. Si vedrà come andrà a finire: se il 18 aprile riderà più lui o Marco Travaglio, che sul Fatto Quotidiano gli ha augurato, a suo modo, di fare la stessa fine di Craxi. Ma anche di Silvio Berlusconi, prodigatosi nel 2011 da Palazzo Chigi a boicottare con l’astensione i referendum contro la produzione di energia nucleare, la gestione privatizzabile dell’acqua e un “lodo” che lo proteggeva sul piano giudiziario, perdendoli impietosamente tutti. E accelerando una crisi di governo che già lo incalzava dopo la rottura dell’alleanza con Gianfranco Fini, mentre i titoli del debito pubblico italiano precipitavano nelle borse fra le risatine compiaciute di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel.

Renzi tuttavia si trova oggi ad avere una cosa mancata decisamente a Craxi, e poi anche a Berlusconi. Nell’omelia della domenica delle Palme Eugenio Scalfari lo ha promosso fra “i personaggi più attuali in questo momento”, con Papa Francesco, Mario Draghi e Angela Merkel, senza l’ormai declinante Barack Obama, ora in festosa trasferta a Cuba. Pur con le sue aspirazioni a cancelliere, estranee alle tradizioni della democrazia nostrana, “Renzi rappresenta l’Italia e io scrivo da europeo italiano”, ha ricordato il profeta laico della Repubblica, evidentemente anche ai no-triv.

Craxi, Renzi e le (sfortunate) astensioni ai referendum

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