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Quasi in parallelo con i risultati delle elezioni in tre importanti Länder tedeschi e gli esiti delle “primarie” e delle “consultazioni popolari” per le elezioni in diverse città italiane (di cui quattro molto importanti), i venti maggiori istituti di previsioni econometrica (tutti privati, nessun italiano) hanno diramato l’aggiornamento mensile delle loro stime per i principali Paesi del mondo, e dunque dell’eurozona.

Non c’è da stare allegri: la media delle previsioni dei venti istituti stima all’1,5 % ed all’1,6% la crescita per l’intera area dell’euro, con un leggero ribasso (un decimale) rispetto al mese scorso. Si può dire che la differenza è trascurabile, ma non solo sarebbe stato indubbiamente meglio uno o due decimali in più (invece che in meno) e soprattutto dovrebbe preoccupare  che sei istituti su venti stimino una crescita solo dell’1% per l’anno in corso, con trascinamento (al ribasso) anche nel 2017. L’Italia continua ad essere, dopo la Grecia, il fanalino di coda dei Paesi dell’eurozona nel campione per il quale vengono effettuate elaborazioni ogni mesi: per il 2016 , le stime di crescita sono tra lo 0,8% ed il 2% con la media all’1,1% , per il 2017 si giunge all’1,1%. Gli ottimisti possono dire che comunque si evita una nuova recessione. Tuttavia, il tasso di disoccupazione resta tra l’11,5% ed il 12% di coloro che cercano attivamente lavoro. E, di conseguenza, aumenta il disagio sociale. Il quadro di sintesi è un’Europa affaticata.

Cosa è all’origine di questa fatica? Indubbiamente, le determinanti sono molteplici: i dissidi interni tra forze politiche e pure nel cuore dei partiti, la situazione internazionale con le difficoltà di delineare una politica comune nei confronti dell’immigrazione, le tensioni causate dal terrorismo, trasformazioni strutturali che coinvolgono interi settori (come editoria, commercio, e vari rami del manifatturiero)

Quattro economisti distinti e distanti dalle nostre beghe – due di Stanford (T. Renee Bowen e Nicolas S. Lambert), uno di New York University (Oeindrila Dube) ed uno di Hong Kong (Jackie M.L. Chan) offrono una spiegazione su cui vale la pena riflettere. Nello Stanford University Graduate School of Business Research Paper No. 16-17 presentano una “teoria razionale” di “stanchezza da riforme” (reform fatigue),

In sintesi, i politici in Europa devono, in ciascun momento della loro attività, scegliere tra riforme o status quo (lasciare le cose come stanno). Le riforme promettono un tasso maggiore di produzione agli elettori di quanto non faccia lo status quo. Sempre, però, che i politici siano “competenti” nel senso che la capacità e la abilità amministrativa di assicurare che le riforme vengano attuate bene e con successo. Tuttavia, né i politici né gli elettori conoscono ex ante la “competenza” dei politici. Inoltre gli elettori non sono in grado di osservare lo sforzo dei politici nel fare passare e nell’attuare le riforme, ma possono soltanto osservare i risultati in termini aggregati. In una situazione di equilibrio, gli elettori danno ai politici credito per il successo delle riforme all’inizio di un ciclo. In assenza di successi nel breve termine, il tasso di riforma diminuisce ed aumenta la reform fatigue.

In effetti, dalla introduzione della moneta unica, in tutti i Paesi dell’eurozona sono in corso riforme, in gran misura incompiute o solo parzialmente realizzate. Di molte di esse, poi, gli elettori sentono parlare ma non ne vedono i frutti ed ancor meno li toccano con mano. Non è questa una determinante della fatica che pervade l’eurozona?

Perché l'Europa è affaticata

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