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Il fatto che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dica che la missione internazionale Unifil sia anch’essa uno “scudo umano” di Hezbollah, pone, come giustamente ha scritto su X anche il professor Germano Dottori, un dilemma: andarsene o farsi travolgere dalla guerra? Perché le azioni di Israele hanno mostrato come esso, ormai, non riconosca la missione dell’Onu lungo la “Blue Line”.

La presenza di Unifil in Libano andava tutelata finché, pur a guerra tra Israele e Hezbollah in corso, riconosciuta dalle parti. Oggi non è più così. Ha scritto bene il generale Antonio Li Gobbi su Difesa Online, che “stanti tutti i limiti che le vengono imposti in relazione all’uso della forza”, una missione militare dell’Onu “può essere efficace nei confronti delle parti solo se percepita come autorevole e assolutamente imparziale”. Purtroppo, Unifil non è stata percepita come imparziale da parte di Tel Aviv ormai da troppo tempo.

I 1.060 chilometri quadrati compresi tra il fiume Litani e la “Blue Line”, che sono il territorio di pertinenza della missione onusiana, non hanno mai rappresentato un vero cuscinetto in grado di frapporsi tra israeliani e militanti di Hezbollah. Ed oggi, tenere inchiodati i soldati di Unifil alla “Blue Line”, con le regole d’ingaggio assurde cui sono sottoposti, equivale a condannarli. Si deve trovare una via d’uscita politica dignitosa dal pantano in cui le Nazioni Unite hanno trascinato gli uomini e le donne impegnati in quella missione.

Per citare ancora il generale Li Gobbi, con Unifil è stata sancita tutta “l’incapacità dell’Onu di condurre in proprio missioni militari che vadano al di là del monitoring and reporting tra entità statuali che ne accettino veramente la presenza e che, comunque, abbiano veramente la capacità di esercitare il controllo su tutte le formazioni militari operanti nell’area”.

Sotto questo aspetto, Unifil II sta scontando lo stesso problema che aveva limitato l’azione di Unifil I e della Multinational Peacekeeping Force degli anni ‘80. Basti pensare alle difficoltà non solo di mappare, ma anche di dialogare con le fazioni in lotta tra loro, di comprendere il ruolo specifico nell’area di Tsahal e di trovare un “modus vivendi” con le formazioni sciite. Tutte questioni che si sono drammaticamente ripresentate oggi, prima con l’erosione della sicurezza nel Libano meridionale, poi con la guerra di Gaza, infine con l’inizio della campagna militare israeliana lungo la linea del Litani e le pressioni esercitate sul contingente internazionale.

Esiste, poi, un altro campo di analisi, che meriterebbe di essere approfondito e che è legato alla politica estera italiana: il costante “presentismo”, slegato da regole d’ingaggio che tutelino la vita dei nostri soldati, se trasformati in bersagli, può ancora essere una linea valida oggi? La domanda è retorica, perché la riposta, ovviamente, è no.

Utilizzare le Forze Armate come “peso determinante” (teoria tutta italiana della politica estera) nello scacchiere internazionale, senza dotarle degli strumenti necessari ad operare nelle aree calde quando esse (davvero) si infiammano non può essere più una strategia. Anche i dubbi amletici del governo di Roma sul versante Unifil mostrano quale “crisi di coscienza” si stia attraversando su questo punto.

La matrice di inizio secolo è la crisi profonda – se non la fine – del multilateralismo. Le regole che tenevano in piedi, anche in caso di conflitto aperto, la credibilità delle Nazioni Unite non esistono più. Specie dopo lo scandalo Unrwa, l’Onu ha perso credibilità nei confronti di Israele. I militari di Unifil, loro malgrado, stanno scontando errori commessi dal vertice politico del Palazzo di Vetro.

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