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Il raggiungimento del record negativo del prezzo del greggio in 13 anni, ora sotto i 27 dollari al barile, è l’ennesima tegola sulla testa di alcuni Paesi produttori, membri del cartello dell’Opec. Chi rischia ora più grosso è il Venezuela. A Caracas, il presidente Nicolás Maduro è alle prese con indicatori economici che peggiorano di giorno in giorno, come ha segnalato di recente anche il Washington Post. A causa della crisi petrolifera dei prezzi, quest’anno il tasso d’inflazione del Paese salirà, secondo le previsioni degli economisti, dal 275 al 720 per cento. Una cifra astronomica. Stando poi ad un sondaggio effettuato dall’Economist, il tasso di povertà ha raggiunto ormai il 76 per cento, mentre durante il periodo di potere di Hugo Chávez era intorno al 55 per cento. Il default sembra dunque alle porte e troppo lontana la possibilità di riconvertire una economia agganciata fortemente alla produzione di greggio, peraltro scarsamente innovativa da un punto di vista tecnologico.

Nella situazione attuale, il Venezuela ricaverà quest’anno dall’esportazione del greggio appena 18 miliardi di dollari, mentre i soli interessi sul debito pubblico costeranno al Paese 10 miliardi. Il margine per le importazioni sarà dunque di appena 8 miliardi, che sono spiccioli se si pensa che  lo scorso anno il paese ha importato beni per 37 miliardi di dollari, incluse gran parte delle derrate alimentari del Paese.

Anche la Nigeria, un altro importante Paese membro dell’Opec, vive momenti di crisi economica. Per provare a tenere botta ai mancati introiti derivanti dalle rendite petrolifere, il ministro delle Finanze nigeriano, Kemi Adeosun, sarà in Cina la prossima settimana per negoziare un prestito di due miliardi di dollari con la banca cinese Eximbank of China. Finanziare spesa e debito è però una sfida sempre più dura per Abuja, che si è vista costretta il mese scorso a chiedere alla Banca Mondiale un prestito di emergenza da 3,5 miliardi di dollari per coprire un deficit schizzato a 15 miliardi di dollari.

Anche l’economia di alcuni Paesi del Golfo, tra i più resilienti ai crolli degli indici dei prezzi del greggio, scricchiola. “Il mercato obbliga tutti (i produttori) a non ridurre ma a stabilizzare i loro livelli di produzione” ha riferito Suhail al-Mazrouei al canale televisivo Sky News Arabia di Abu Dhabi, ma anche la petromonarchia del Golfo sarà presto costretta a tornare sul mercato obbligazionario. Gli Emirati Arabi Uniti, infatti, dovranno ratificare una legge entro la fine di quest’anno, che permetterà al governo federale di emettere obbligazioni. Dopo la ratifica, che avverrà entro 9 mesi, il governo emiratino emetterà bond per circa 27 miliardi di dollari, ha ammesso il sottosegretario di stato delle finanze, Younis al Khouri. Basterà? Difficile dirlo. L’Oilmageddon, come alcuni analisti di CitiBank hanno soprannominato l’attuale congiuntura, è sicuramente uno dei principali elementi di instabilità internazionale, come ha tenuto a ricordare di recente anche il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, che ha parlato chiaramente di rischi geopolitici dei bassi prezzi del petrolio, ricordando come l’Iraq sia attraversato da una forte crisi economica legata al cheap oil.

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