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Il caso è noto: un giovane italiano, Giulio Regeni si reca al Cairo per svolgere le ricerche concordate con la sua università inglese. Nel corso di esse, Regeni incontra esponenti dell’opposizione al regime, presieduto da Abd al-Fattah al-Sisi, il generale chiamato al potere da una rivolta laica e borghese contro il governo islamista e radicale di Mohamed Morsi, e legittimato da un’ampia maggioranza elettorale. Regeni scompare e viene ritrovato dopo alcuni giorni: è morto e ha subito orrende torture, i cui segni sono evidenti sul suo corpo. Se ha commesso un errore, il giovane ha fatto quello di ritenere che il perimetro delle libertà civili di cui disponeva al Cairo fosse simile a quello di cui disponeva a Londra o in Italia.

Naturalmente, la famiglia è insorta e con lei mezza Italia, più per ragioni di bottega che per ragioni ideali. Il caso Regeni veniva a fagiolo, visto che il governo Renzi aveva stretto i rapporti politici (lotta al terrorismo) ed economici (Eni e petrolio) con il governo al-Sisi. E, quindi, drammatizzare, con schieramento di giornali, radio e televisioni, serviva a mettere in imbarazzo il governo italiano.

Matteo Renzi ha reagito da politico intelligente: ha cavalcato l’onda emotiva e, tramite il suo ministro degli esteri, l’eccellente Gentiloni, ha addirittura ottenuto che gli inquirenti egiziani venissero a rapporto da Pignatone, procuratore capo di Roma. Se pensiamo al caso inverso, a un’autorità giudiziaria egiziana che chiama a rapporto gli inquirenti italiani, vediamo subito come la decisione di al-Sisi di mandare i suoi uomini a Roma rappresentava il massimo delle concessioni possibili. Peraltro, fuor di metafora, gli faceva perdere un po’ di faccia.

La pretesa italiana di intervenire nel merito è risultata sbagliata e improcedibile. Il resto è illusione. Presa per i fondelli delle anime finte pie, in attesa dell’esaurirsi della pressione e dell’archiviazione della memoria.

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