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Nel giorno in cui l’Inps offre l’ultimo dato che certificherebbe il successo degli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha proposto su L’Unità un’analisi delle politiche del governo che parte invece dalla riduzione delle tasse sul lavoro e la conseguente famosa misura degli 80 euro. Non un regalo per guadagnarsi facilmente consenso, dice Taddei, ma una restituzione ai lavoratori della ricchezza da loro creata, la dimostrazione quindi che il governo sa rischiare l’impopolarità con una strategia. Indipendentemente dalla sua efficacia, ogni misura è innanzitutto un messaggio diretto ai cittadini, in questo caso il segno di una visione del “valore del lavoro” che sta quindi dietro anche alla decontribuzione per i neo assunti, la quale ha sua volta preparava il terreno al Jobs Act.

Nonostante quello degli 80 euro non sia forse l’esempio migliore, nonostante si presti in fondo a una lettura adeguata più allo schema della disintermediazione dei corpi intermedi, Taddei per alcuni versi ha ragione. Il professore bolognese è sempre stato tra i più attenti in casa Pd a ricordare che i risultati della riforma del lavoro andranno valutati nel medio-lungo periodo. Ha quindi senso che tali politiche vengano per ora considerate più sul profilo del significato che su quello del risultato. Vero anche che il governo ha affrontato l’impopolarità predisponendo il superamento dell’articolo 18, simbolo dei simboli. Vero infine che in campo economico sapere infondere fiducia è una attività complementare alla predisposizione di condizioni di sviluppo. Bene quindi che cittadini, imprese, e anche le istituzioni europee abbiano un’immagine dell’Italia in cui confidare maggiormente.

Ci sono però alcune contraddizioni da tenere presente in questo ragionamento che emergono quando si guardi al tenore della comunicazione impostato da Renzi. Una narrazione (termine oggi largamente abusato) coerente, trasparente e credibile è ormai questione di rilevanza politica tanto quanto un programma o una legge, ma c’è una differenza tra il frame ripetuto de “l’Italia col segno più”, la “speranza” come parola chiave di una filosofia comunicativa, e il trionfalismo con il quale a più riprese si annuncia il ritorno del lavoro stabile. Fino a che punto l’enfasi narrativa è utile a trasmettere meglio il messaggio insito in un agire politico? Se la missione politico-comunicativa del governo Monti doveva affrontare l’impopolarità dei sacrifici per il risanamento, faticando a trasmettere speranza e desiderio di riscatto nel misto di “lacrime e sangue”, Renzi ha il problema opposto: non farsi tentare troppo dai “segni più” e non trasformarli in acerbe medaglie nella personale battaglia contro il mondo gufo. Da quando la strategia dei “mille giorni”, del “passo dopo passo”, ha lasciato il posto alla “rivoluzione copernicana” e alla celebrazione degli effetti taumaturgici del Jobs Act, la comunicazione di questo Governo ha stipulato una scommessa con la sua sostenibilità. Cosa succederà per esempio nel 2016 quando le assunzioni a tempo indeterminato saranno incentivate da una decontribuzione più che dimezzata rispetto a quella concessa nel 2015? Quali effetti sul consenso si otterrà dal bilancio tra le storie (anche poche) di coloro che assunti con un contratto a tutele crescenti saranno licenziati e l’occupazione che cresce a zerovirgola? Quali grosse cifre nei tweet di Renzi si potranno affiancare ai “segni più” dell’agognato lavoro stabile?

Secondo rilievo: la ricerca esasperata di dati che possano confermare la bontà della riforma anche nella dimensione quantitativa (e non solo qualitativa), pur nell’incertezza dei segnali che arrivano dal contesto economico internazionale, tradisce un’impostazione completamente a tesi della politica come della sua comunicazione. Nessuna traccia di sperimentalità riformista, di responsabilità condivisa con le parti sociali e mondo produttivo, nessuna pubblica riflessione sulle correzioni da apportare in base ai dati parziali. C’è piuttosto dell’ostentata sicurezza del successo, che fa bene il paio con una questione di leadership, ma non certo con la prudenza nel valutare i risultati.

Infine, una contraddizione esiste proprio sul piano del messaggio. Nell’elogio alla stabilità come chiave per il futuro del lavoro c’è un equivoco di fondo: che assumere a tempo indeterminato sia il segno inequivocabile di un investimento in capitale umano. Può essere un indizio, ma non certo una prova, soprattutto in condizioni di forte incentivo economico. E’ quindi improprio restituire ai cittadini un messaggio che identifica il tempo indeterminato come il ritorno del lavoro stabile, specie in assenza di articolo 18 e con le politiche attive ancora solo ai blocchi di partenza. Ancor peggiore il messaggio che il Governo ha scelto di dare alle imprese, perché seguendo la semplificazione del chiodo e del martello, se un imprenditore pensa che tutto quello che ha disposizione è un incentivo (e che si affretti!), ogni problema gli sembrerà un costo, non un investimento. A riprova di questo approccio si veda anche la pressoché completa assenza di preoccupazione per l’andamento dell’apprendistato.

Da qui al rischio di lasciare le giovani generazioni, ma anche le imprese, senza utili chiavi di lettura e strumenti per il successo nel mondo del lavoro, il passo è breve. Responsabilità e iniziativa personale, condivisione dei rischi e dei risultati, formazione continua, attitudini mortificate dalla subordinazione pura, entrano nel dibattito pubblico solamente nelle ultime settimane grazie ai disegni di legge sul lavoro autonomo e il cosiddetto lavoro (subordinato) agile. Lo fanno solo in modo periferico. Eppure non si tratta di qualità che collidano frontalmente con l’idea di un mercato del lavoro il più possibile inclusivo, meno dualista, più stabile. Anzi si tratta di inclinazioni diffuse nella generazione dei millenial e di principi sempre più seguiti dalle organizzazioni aziendale, anche della manifattura. Parlando di questo il Governo parlerebbe comunque a tutti. Forse ormai già più di quanto non riesca parlando solo di stabilità.

Il Jobs Act, gli sgravi e i messaggi di Renzi e Taddei

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